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31 Mag 2012

Alfabetizzazione, ieri

di Marianna Panico
Nel 1944, in Campania, un bambino di 8 anni veniva avviato al lavoro nelle campagne di Casalnuovo di Napoli. Così la sua famiglia aveva fatto con i suoi fratelli prima di lui, così sarebbe accaduto con quelli più piccoli appena avessero avuto braccia abbastanza grandi per lavorare. Complice la povertà e la mancanza di politiche d’istruzione obbligatoria, non c’era altra scelta alla sopravvivenza. Quel bambino non smetterà più di lavorare; a seguire nell’edilizia per qualche lira in più e poi nel pubblico impiego, per andare in pensione, con 36 anni di contributi, 60 anni dopo, senza mai aver avuto la possibilità, ma neanche la necessità, di imparare a leggere e a scrivere. Non per questo il suo contributo, come quello di tanti altri nella sua stessa condizione, alla ricostruzione del dopoguerra e al boom economico degli anni sessanta-ottanta, fu minore e conserva ancora gelosamente l’encomio all’abnegazione che lo Stato gli assegnò nel 1976.
Nello stesso anno, il 1944, una ragazzina di 11 anni, nella punta estrema dell’Italia, veniva internata in un collegio religioso nella città di Ragusa, e, insieme ad altre orfanelle e bimbe indigenti, vi sarebbe rimasta fino al 1958. La giovane siciliana tornerà al suo paese portando in dote, oltre ad una fede incrollabile nell’esistenza dell’Inferno e del Paradiso, l’aver imparato a leggere e scrivere a oltre a saper fare il pane, a cucinare, cucire e ricamare, tutto questo senza nessuna licenza elementare né diploma di economia domestica.
Sono storie vere di due analfabeti di oggi che si stimano essere in Italia poco meno di un milione.
Guardare all’alfabetizzazione di un popolo è un ottimo esercizio per verificare il grado di progresso politico e sociale che ha raggiunto e prospettare scenari di possibili evoluzioni culturali ed economiche. In Italia all’indomani dell’Unità, 150 anni fa, gli italiani in grado di leggere e scrivere erano solo il 22% con punte drammatiche di analfabetismo del 90% in Sicilia, Calabria e Sardegna. Nel secondo dopoguerra, grazie alla politica di alfabetizzazione di massa avviata per unificare la lingua nazionale e superare nel linguaggio corrente i dialetti, le percentuali di italiani scolarizzati crebbero fino a circa l’80% con un divario del Sud di venti punti rispetto al Nord. Ci sono voluti circa 150 anni per rendere le nostre percentuali di analfabetismo accettabili, ed oggi sono confrontabili con le medie europee . La lentezza del processo e la diseguaglianza dei risultati è tutta da legare al malfunzionamento della macchina scolastica, all’enorme divario economico e sociale tra le regioni del Nord e quelle del Sud, alle differenze tra i ceti, alla discriminazione dalla scolarizzazione delle donne e dei disabili, nonché l’incredulità delle autorità religiose di inizio secolo nella possibilità dei contadini di apprendere la lingua italiana.
Cosa possiamo imparare oggi noi rivolgendo lo sguardo all’indietro? Che una classe politica illuminata, che guarda alle generazioni future e al progresso di un paese, sente fortemente il problema dell’alfabetizzazione. Che resta ancora una priorità recuperare il ritardo nella scolarizzazione del Mezzogiorno non più rispetto al Nord, ma rispetto all’Europa. Che, con la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica e virtuale degli ultimi anni, nuove forme di analfabetismo adulto sono in agguato e che, soprattutto, non abbiamo altri 150 anni a disposizione per fare tutto.
P.S. I bambini da me raccontati sono i miei genitori, ai quali va la mia immensa riconoscenza e gratitudine.

Scritto da

Redazione LPP

- Redazione de La Prima Pietra