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Da cosa nasce #GezyPark

Tutto è iniziato  con l’annuncio della distruzione dei 600 alberi dello storico Gezi park nel cuore di Istanbul. La rabbia e il malcontento che covava da anni nella società turca è sfociato nei duri scontri iniziati il 31 maggio e che durano ancora oggi. La violenta repressione della polizia ha finora portato a 939 arresti, 2 morti e 4 feriti gravi, e un bilancio ancora non chiaro di violazione dei diritti umani. Vista con gli occhi dell’opinione pubblica occidentale la ribellione turca è, come prima era stata la primavera araba, uno scoppio imprevedibile, un fulmine a ciel sereno.

Dopo piazza Thair c’è ora piazza Taksim. Dopo il Cairo è la volta della più vicina Istanbul. In realtà la situazione è molto più complessa e articolata rispetto a quella che potrebbe sembrare ad un osservatore poco attento.occupygezy_istanbul_12

 La protesta turca  è infatti un coacervo di tensioni, motivi, cause che gli stessi partecipanti assumono in maniera diversa, a seconda della propria storia, sensibilità e condizione sociale. Se da un lato ci sono molti che in effetti sono scesi i piazza per protestare contro la creazione di un centro commerciale nel proprio quartiere e molti giovani che voglio semplicemente bere birra e usare i social network “all’occidentale”, il malessere più grande riflette il conflitto esistente fra le forze produttive della società che sconvolge la Turchia da almeno un decennio.

Un malessere prodotto e incarnato dalla politica espressa da Recep Rayyip Erdoǧan. Quel mix di neoliberismo sfrenato, islamismo radicale e ambizioni geopolitiche che risponde al nome di “turco-gollismo”.

Per capire questi cambiamenti che hanno trasformato la Turchia come non era mai accaduto nei decenni precedenti, è necessario tornare indietro di qualche anno.

Siamo nel 2001, il paese è economicamente a pezzi: la crescita del PIL è al -9,4%, l’inflazione raggiunge la cifra folle del 68,5% , e il sistema industriale è totalmente arretrato, imperniato intorno ad alcune vecchie aziende dello Stato gestite con metodi che non esistono più in nessun paese europeo. Questa drammatica situazione economica si traduce nella grande difficoltà di trovare finanziatori a livello internazionale. Nessuno si fida della classe politica turca che non riesce a piazzare quasi da nessuna parte i suoi titoli di stato.
Ma il 2001 è un anno cruciale per i destini degli equilibri geopolitici globali. Sono gli anni della cosiddetta “guerra al terrorismo”. Gli USA si stanno preparando ad attaccare l’Iraq e non possono permettersi una Turchia instabile. Per questo agli inizi del 2002 il Fondo Monetario Internazionale approva la più colossale forma di finanziamento della sua storia:  31 miliardi di dollari ad Ankara. Ovviamente, come accade sempre, la concessione del prestito è subordinata all’approvazione di misure “lacrime e sangue” per la popolazione turca.  I capisaldi delle riforme devono essere i soliti: la riduzione del debito pubblico, il rigore fiscale, la lotta all’inflazione, una fitta serie di riforme strutturali per il rafforzamento del settore privato, del sistema bancario e per il miglioramento dell’investiment climate attraverso un piano di liberalizzazioni e privatizzazioni.

Tuttavia c’è ancora una “piccola” questione da risolvere: la classe dirigente turca non è credibile agli occhi dei finanziatori internazionali, e cosa ancora più grave non è minimamente credibile agli occhi di una popolazione che si appresta a pagare sulla propria pelle il peso delle misure di austerità. Del resto, nel corso del 2001,  proprio mentre vengono discusse queste misure, due pesantissimi scandali di corruzione portano alle dimissioni del Ministro dell’Energia e di quello dei Lavori Pubblici.

E’ proprio in questo momento che compare sulla scena politica turca un uomo nuovo, Recep Rayyip Erdoğan. NEWS_45815Un personaggio controverso, di origini molto umili, legato agli ambienti islamici, amico degli americani e soprattutto molto popolare tra i settori più poveri e periferici di Istanbul, città di cui è stato a lungo sindaco, per le sue posizioni populistiche e anti sistemiche. Alle elezioni del novembre 2002 il suo partito, l’AKP, fondato soltanto nel 1998 , prende l’esorbitante cifra 34,3% per un sistema fortemente proporzionale come quello turco.
Da questo preciso istante cambia la politica della laica Turchia e si afferma prepotentemente un modello nuovo di governo basato sull’alleanza fra neoliberismo e islamismo radicale.

Fra il 2003 e il 2005 Erdoğan porta avanti con estrema determinazione il programma imposto dall’FMI. Il primo atto del suo governo è istituzionalizzare la pratica del lavoro interinale e l’innalzamento della media oraria lavorativa che sale a ben 53 ore settimanali. Il governo procede anche con la riforma delle pensioni fortemente voluta proprio dall’FMI, che porta l’età pensionabile a 65 anni, in una nazione la cui aspettativa di vita è meno di 72 anni e privatizza il sistema sanitario, istituendo l’Assicurazione Sanitaria Unificata. Il paese si apre agli investimenti stranieri grazie ad un salario medio di 300 euro e alla possibilità di aprire un’azienda con un semplice modulo e senza nessun ulteriore controllo.
Per far digerire questi enormi sacrifici alla popolazione Erdoğan ha un’intuizione: la costruzione del consenso in base al richiamo religioso. La laica Turchia si scopre fortemente islamizzata e anti ebraica. Scopre la sua vocazione di superpotenza regionale impegnata a sostenere gli arabi in Palestina, Libano ed Egitto. Grazie al richiamo all’islamismo e al supporto a scuole coraniche e centri di assistenza e di volontariato a sfondo religioso, Erdoğan si garantisce il sostegno dei ceti popolari delle zone rurali dell’Anatolia. Nel frattempo le politiche del FMI iniziano a produrre i primi risultati. La recessione finisce, l’alta borghesia si arricchisce sempre di più e soprattutto si crea quasi dal nulla una nuova borghesia islamica, fondata sulla piccola e media impresa, sul commercio e sui servizi. Tutti questi ceti, reazionari da punto di vista sociale e religioso e liberali del punto di vista economico, costituiscono la focosa e potente base del AKP. Una parte di Turchia a cui se ne contrappone un’altra rappresentata da lavoratori dipendenti, impiegati, laici e intellettuali.

Difficilmente nel prossimo futuro una delle due parti riuscirà a prevalere senza lo scoppio di una guerra civile.

gezi-park1E altrettanto difficilmente le potenze occidentali permetteranno che si rompa il fragile equilibrio turco in uno scacchiere mediorientale e sempre più in fiamme e la minaccia Iraniana sempre presente. 

 

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