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7 Gen 2012

Gli ultimi della classe

C’è un motivo se nelle competizioni scolastiche o lavorative gli italiani si classificano sempre in posizioni di subordinazione rispetto a studenti o professionisti dei vari settori provenienti da altri paesi. Basta una lettura dei dati forniti dall’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) relativi all’istruzione dei 34 paesi membri per tentare di trovare una spiegazione di  questa situazione.
L’OCSE ci dice, nel rapporto del 2011, che in Italia solo il 70% dei giovani tra i 25 e i 34 anni ha un diploma di scuola superiore contro l’81% della media dei paesi aderenti all’Organizzazione, e che sono solo il 20% dei giovani italiani contro la media del 37% dei paesi Ocse ad accedere a un’istruzione terziaria (università, master, dottorati, etc.). Istruzione superiore e innovazione e sviluppo sono direttamente collegati l’uno all’altro, e infatti da dati ISTAT ricaviamo che il numero di brevetti che vengono rilasciati ogni anno in Italia si aggira intorno ai 120 per milione di abitanti, contro i 280 di Germania e Svezia.
Qualcosa però non quadra se si leggono quante ore di lezione in più  un giovane italiano è tenuto a seguire rispetto a un collega straniero: a fronte delle 6732 ore di lezione di uno studente medio Ocse, un italiano sarà impegnato per 8316 ore. Sembrerebbe che l’Italia stia ancora ragionando, per crescere i cittadini del futuro, sulla quantità di studio e non sulla qualità. Infatti negli ultimi dieci anni mentre l’aumento della spesa media per studente dei paesi Ocse è cresciuta del 34%, quella italiana ha avuto un piccolo salto in avanti dell’8%. Dati che farebbero vergognare qualunque governante di qualunque dei paesi dei Grandi Otto, ma non quelli italiani, che sembrano non solo avari di fondi destinati alla cultura e alla formazione, ma addirittura incapaci di discriminare dove questi fondi vadano investiti: sembra infatti non esistere alcun piano di investimento e sviluppo. La scuola primaria italiana (a ragione tanto decantata dalle anziane maestre) riceve per alunno circa 6000 euro (contro i 4500 euro investiti dai governi  degli altri paesi) e per l’università uno studente italiano “pesa” economicamente circa 7000 euro, contro i 10.000 euro medi degli altri paesi. Quest’ultimo dato, insieme a quello relativo al numero di studenti per insegnante (10 a 1 nelle scuole primarie e 18 a 1 a livello di istruzione terziaria), ci dice molto di quanto poco sia presa in considerazione la formazione di alto livello in Italia. La media degli altri paesi aderenti all’Ocse sembra invece avere una direzione totalmente opposta: non solo alla formazione universitaria vengono destinati maggiori finanziamenti ma, nella stessa ottica, sono le classi delle scuole elementari a essere più numerose, mentre quelle universitarie vengono lasciate meno affollate e quindi più “produttive”.
Sembra dunque riduttivo insistere sul leit motiv (sebbene sacrosanto) del “non ci sono soldi”, sarebbe invece più opportuno puntare il dito su come quel denaro viene investito o gestito. Sembra non esserci alcun piano , alcuna meta da raggiungere, sembra piuttosto che questi soldi vengano spesi giusto perché si deve, senza preoccuparsi poi di che fine fanno o quanto fruttano in termini di sviluppo del Paese. In quest’ottica non produce dunque stupore che in Italia le Regioni che maggiormente investono nella voce “istruzione” sono la Campania (con un investimento pari al 7% del PIL), la Basilicata e la Calabria, ovvero quelle Regioni dalle quali provengono meno domande di brevetto, meno laureati, meno specialisti e caratterizzate da un bassissimo livello di imprenditoria e, allo stesso tempo, da una vera e propria “passione” per il ruolo assistenziale dello stato. Perché succede questo? Perché in Italia, come in Grecia, non esiste alcun controllo statale sugli istituti scolastici e le università sul modo in cui i fondi ricevuti vengono spesi o gestiti.  Esistono ovviamente dispositivi legislativi che assicurano che gli istituti osservino le leggi e i regolamenti (per esempio sono tenuti a presentare una documentazione autocertificata ogni anno sul proprio bilancio), ma non è prevista, come invece accade negli altri paesi aderenti all’Ocse, alcuna forma di ispezione da parte di funzionari che possano così valutare la qualità dei corsi e  degli insegnamenti,  né individuare i punti di forza e di debolezza di ogni istituto scolastico. Tantissimi soldi vengono per questo ogni anno sprecati, soldi che potrebbero servire per una formazione più competitiva e di qualità dei giovani italiani. Probabilmente tra le tante riforme del sistema scolastico e universitario, mai nessuna ha avuto la capacità di capire che più che tagliare col machete fondi all’istruzione sarebbe forse il caso di immaginare un vero e proprio piano di sviluppo che passi, come punto focale, attraverso la formazione dei futuri italiani che possano finalmente smarcarsi dalla nomea degli “ultimi della classe”.

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