Condividi:

" />

Gli usurpatori della fase costituente

“Povere norme mie gettate al vento”
ovvero gli usurpatori della fase costituente

usurpatori della fase costituente

“C’è sempre stato un Senato… “: in un serrato faccia a faccia  così dice all’imperatore Commodo sua sorella Lucilla, figlia di Marco Aurelio e innamorata di Massimo (Russell Crowe) nella celebre pellicola “Il Gladiatore” di Ridley Scott del 2000.
Rivedendo quel film, si sono affacciati alla mia testa tanti pensieri sulla riforma del Senato di cui si fa un gran parlare in questi giorni dopo il patto della “profonda sintonia” (sic!) siglato al Nazareno fra il neo premier del PD, Matteo Renzi, e il leader carismatico del centro-destra, Silvio Berlusconi.
L’argomento è impegnativo, ma trattarlo nelle sue implicazioni tecniche rischia di essere tedioso di fronte alla portata secca e mediaticamente efficace della ricetta renziana: aboliamo l’attuale Senato, sostituiamolo con una Camera delle Autonomie a costo zero perché composta da massimo 150 membri (meno della metà degli attuali senatori)  di diritto quali Governatori di Regione, Sindaci dei Capoluoghi di Provincia e qualche esponente di chiara fama nominato dal Capo dello Stato, tutti già stipendiati per le loro cariche locali e dunque senza oneri per lo Stato.
Criticare questa riforma si tira appresso immediatamente il marchio del conservatorismo “castale” e l’accusa di non voler abbattere gli imputati del secolo: i costi della politica. Non importa se le idee contenute nella proposta siano confusionarie e inette.
Ragionare sul tema richiederebbe tempo e approfondimento, ma nell’era degli slogan e dei titoli in luogo delle riflessioni e dello studio, qualsiasi osservazione sensata rischia di passare in sottordine. Tuttavia l’ostinata ricerca dei principi e la voglia di razionalità ci impegnano a non trascurare le magagne nascoste dietro le prospettazioni apparentemente più brillanti del momento.

Consapevole di dover combattere sul piano inclinato della comunicazione para-pubblicitaria, avverto il cortese lettore che potrà a sua scelta fruire delle righe che seguono o nella loro interezza (se ha qualche minuto in più da spendere)  oppure (se il tempo gli scarseggia) nella versione short che sarà composta dalla prima frase di risposta ai cinque interrogativi che formulerò qui di seguito.

1) Perché abolire il Senato e non la Camera dei Deputati?

Fra i due rami del Parlamento, anziché il Senato si potrebbe abolire la Camera per varie ragioni: perché – come ricorda la frase di Lucilla –  dalla Roma Antica ereditiamo l’assemblea dei senatori e non quella dei deputati; perché se vogliamo applicare i criteri di spending review è più utile abolire un consesso di 630 membri come quello che si riunisce a Montecitorio piuttosto che quello di 315 di Palazzo Madama; perché il Vicepresidente della Repubblica (come si definì nelle sue epistole agli americani l’indimenticato Giovanni Spadolini) è il Presidente del Senato e non quello della Camera (art. 86 Cost.); perché non è vero che un Senato con funzioni legislative non esista in Francia o negli Usa.

 

usurpatori della fase costituenteOvviamente la prima domanda posta è puramente provocatoria e altrettanto sono provocatorie le argomentazioni addotte a sostegno della sopravvivenza del Senato elettivo. Prima fra tutte è la polemica sulla solfa dei “costi della politica”. Non mi va di pensare che si debba abolire un organo costituzionale sol perché costi. Mettiamoci prima d’accordo sul se serva o meno al Paese. In caso positivo, le risorse finanziarie necessarie non dovranno essere considerate un costo, ma un investimento. Se siamo succubi del pregiudizio secondo cui il Parlamento sia nel suo complesso inutile, allora tanto vale tagliare la Camera bassa che è più numerosa e dispendiosa. Le riforme, soprattutto quelle costituzionali, non si possono elaborare arrendendosi alle onde del momento e inseguendo le mode dell’attualità. Nel 2001 fu consegnata all’Italia una squallida revisione del Titolo V della Parte II della Costituzione dedicata all’Ordinamento dello Stato e segnatamente alle Regioni, Province e Comuni. La tensione ideale e valoriale che spinse a quel parto sventurato fu la “devolution”, una dottrina federalista che non si ebbe il coraggio di chiamare secessionista e anti-unitaria per rincorrere la dirigenza  leghista e il suo elettorato, imperdonabilmente qualificati come “costola della sinistra”. In realtà il nuovo Titolo V si é rivelato il viatico per una crescita delle diseguaglianze non solo fiscali, ma anche dei diritti fra cittadini di diverse regioni. Poi sappiamo tutti come è finita: le camice verdi sono rientrate all’ovile del centrodestra e il tentativo di riassorbire il loro voto nell’opposto schieramento è venuto miseramente meno. Oggi l’ossessione dei tagli finanziari asseconda la montante polemica grillina su quello che felicemente già da anni etichettavamo come il “magna magna generale”. Lo schema si ripete: scavalchiamo (come pensammo di fare con Bossi) in estremismo  il Movimento pentastellato e guadagniamo i suoi voti o l’alleanza dell’intero o parte di esso, con due conseguenze immediate, la scadente qualità di una riforma costituzionale fondata sul populismo e il sicuro benservito di Grillo, che canterà vittoria e sberlefferá i veri autori della riforma. La semplificazione si rende mistificazione quando non si calcolano i contraccolpi su una serie di attribuzioni costituzionali fondate sul suffragio universale dell’assemblea senatoriale: l’elezione del Capo dello Stato (art. 83 Cost.), la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica votata dal Parlamento in seduta comune (art. 90 Cost.), i poteri di nomina in seduta congiunta con la Camera dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Cost.) e della Corte Costituzionale (art. 135 Cost.) si fondano chiaramente sull’investitura popolare nascente da un’elezione nazionale.
Per quale motivo i sindaci dei capoluoghi di provincia, ad esempio di Isernia (circa 22.000 abitanti) o di Sondrio (circa 21.500 abitanti), dovrebbero di diritto accedere a queste attribuzioni in luogo del sindaco di Sesto San Giovanni (circa 78.000 abitanti) o di Giugliano (circa 118.000 abitanti)? E che senso avrebbero ancora i capoluoghi di provincia dopo l’abolizione delle province?E poi chi ha detto che laddove ci siano una Camera Alta e una Camera Bassa, la prima (in Italia: il Senato) non debba avere funzioni legislative? In Francia esiste un Senato votato a suffragio indiretto (da circa 150.000 grandi elettori fra sindaci, consiglieri municipali e deputati) che in materia legislativa ha funzioni eguali a quelle dell’Assemblea Nazionale, dovendosi avere il voto favorevole dei due rami del Parlamento per approvare una legge. Negli USA vi sono circa 100 senatori (due per ogni stato della federazione) che concorrono con il loro voto al l’approvazione delle leggi, condividendo il potere legislativo con la Camera dei Rappresentanti. Lo slogan “No Senato – Sì Camera” é un problema mal posto. Occorre capire cosa non funzioni più o non abbia mai funzionato. La domanda deve essere un’altra.

2) Ha ancora senso il bicameralismo perfetto?

usurpatori della fase costituenteNon ha senso, perché è una delle concause della crisi della potestà  legislativa: non é possibile che qualsiasi norma debba seguire il cosiddetto “procedimento navetta” facendo la spola fra Camera e Senato per essere approvata nella versione conforme da entrambi i rami del Parlamento. Questo provoca ritardo, disfunzioni e inefficienza nella produzione delle leggi. Ma è corretto rimediare a questa patologia, amputando una parte del corpo? Certamente i tempi sono cambiati dal 1946-48 ad oggi e non è più attuale l’obiettivo che le forze dell’arco costituzionale presenti nell’Assemblea, nell’incertezza della previsione su chi potesse poi vincere le elezioni,  vollero assicurarsi: avere un sistema molto sviluppato  di bilanciamento e contrappesi fra i poteri dello Stato – come ha sempre insegnato l’ex premier Giuliano Amato – in modo che chiunque avesse la maggioranza non potesse mai avere campo libero e forza preponderante sull’opposizione.

 

Il dibattito in Assemblea Costituente sul bicameralismo fu molto approfondito. I socialisti e i comunisti erano favorevoli a una sola Camera, ma nell’esigenza di equilibri più arretrati (per dirla parafrasando Francesco De Martino), prevalse l’idea democristiana di mantenere in luogo del Senato del Regno (concepito dallo Statuto Albertino come consesso di sostegno al Re in contrapposizione alla Camera eletta dal popolo) un Senato della Repubblica, il quale avesse la funzione di “Chambre de réfléchissement”, camera di ripensamento che potesse bloccare colpi di testa dell’altro ramo del parlamento. Si discusse se questa Camera dovesse rappresentare gli interessi del paese (sindacati, camere di commercio, unioni industriali, ordini professionali, università, magistrature, ecc.), ma questa composizione venne giudicata troppo contigua all’ideologia corporativa del fascismo e si conservò una composizione per “categorie produttive” solo nel CNEL (il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro che secondo l’art. 99 della Carta é soltanto un organo ausiliario con funzione consultiva e potere di iniziativa legislativa). Venne anche proposto un Senato delle Regioni, ma questa opzione venne scartata perché giustificabile esclusivamente se le autonomie regionali avessero avuto quel carattere federale che viceversa non venne accolto dalla Costituzione.
Alla fine l’Assemblea Costituente si riconobbe in un ordine del giorno di Antonio Giolitti che nei  suoi passaggi é illuminante:  l’assemblea “ritiene che la seconda Camera debba trarre origine dalla volontà direttamente espressa dall’intero corpo elettorale, secondo un sistema che permetta il miglior apprezzamento dei requisiti personali (…) delibera che la seconda Camera venga eletta a suffragio universale col sistema uninominale e in base a determinati requisiti per l’elettorato passivo, tali però da non incidere sul carattere democratico della Camera stessa e da assicurare la composizione più adeguata ai suoi fini”.
In concreto, l’esperienza parlamentare ha dimostrato però  l’inefficienza del procedimento navetta e l’incapacità del Parlamento a reagire in tempi apprezzabili alle esigenze di normazione poste non solo dalla materia economica e tributaria, ma anche da quella sociale, civile, penale ed amministrativa. Prima di caldeggiare l’abolizione della Camera Alta, occorre verificare se esistano altri correttivi. In Francia, ad esempio, il disaccordo insanabile fra i due rami del Parlamento può essere risolto dal Governo, dopo una procedura chiamata “commission mixte paritaire”, affidando il voto finale all’Assemblea Nazionale che raccoglie una composizione maggioritaria omogenea all’esecutivo. Negli Stati Uniti le difformità di voto fra Camera e Senato possono essere sciolte  con la nomina di una commissione congiunta (conference committee) che elabora un testo di compromesso, da sottoporre nuovamente alle due camere per l’approvazione definitiva.
Ma ammettiamo pure che questo tipo di soluzioni non vada a buon fine e comporti comunque un ritardo cronico che renda intempestivo l’esercizio del potere legislativo, in tal caso, si potrà anche aderire all’idea che il bicameralismo perfetto sia superato. Tuttavia di qui a spogliare il Senato di ogni potere legislativo può essere rivoluzionario. Intendiamoci, l’opzione è tutta politica: quanto siamo disposti a sacrificare sull’altare della velocità? Se la risposta è “tutto”, allora il Senato va abolito. Viceversa se si scorgesse ancora una utilità istituzionale in quel l’idea di Chambre de réfléchissement voluta dal Costituente, allora un Senato delle Autonomie non avrebbe senso, in quanto non si iscriverebbe in quella funzione equilibratrice della potestà legislativa in fin dei conti ammessa anche dall’anima social-comunista dell’Assemblea del 1946-48. A meno che l’animale che si voglia far nascere non debba avere altro ruolo e dunque si ritenga necessario un Senato geneticamente modificato, un vero e proprio Senato OMG.

3) Quali poteri dovrebbe avere il Senato delle Autonomie?

usurpatori della fase costituenteSi possono abolire per legge (e non certo per decreto come pretese invano il cosiddetto Governo dei Professori) le province, ma non si può abolire per legge il provincialismo.
A questa domanda non si può rispondere se non replicando a un altro quesito: se non si riscrive prima la riforma delle Regioni e dei Comuni, come si individuano le  funzioni del cosiddetto Senato delle Autonomie?

 

Il Presidente Emerito della Corte Costizionale Francesco Paolo Casavola ha recentemente  sostenuto che un simile Senato abbia senso se corrispondente a reali tracciati storico-politici di una Nazione. Spesso – ecco il provincialismo o forse l’esterofilia fine a se stessa – ci si richiama all’esperienza del Bundesrat tedesco mediante il quale i Lander partecipano alla funzione legislativa o meglio a quella parte di essa che impatta con le autonomie territoriali della federazione. Questa esperienza nasce dalla circostanza che la Germania si costituì con l’unione di quasi due centinaia di piccoli staterelli. Ora questo sfilacciamento storico-politico che pretese una stanza di compensazione non è rinvenibile in Italia, dove (almeno fino alla sciagurata riforma del Titolo V) al massimo si poteva parlare di regionalismo poi divenuto spinto.

Qui occorre fare ammenda di quella revisione costituzionale  del 2001 e riconoscere con spirito autocritico che l’inversione del rapporto fra potestà legislativa esclusiva e concorrente fra Stato e Regioni abbia provocato disordine e diseconomie.
É il momento di ripensare l’intero istituto regionale e valutare la sua scarsa aderenza alle reali esigenze della collettività almeno per quanto attiene alla funzione legislativa. É immaginabile in tutta serenità che mentre si assista all’amplificazione dell’intervento invasivo delle direttive europee, continuino a sussistere venti parlamentini regionali (più le province di Trento e Bolzano a Statuto Speciale) che possano promulgare provvedimenti di rango normativo primario in ogni materia non riservata allo Stato e che secondo l’attuale art. 117 Cost. riguardi quasi tutti i campi possibili? Testualmente si prescrive: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attivita’ culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
In una parola: troppa grazia, Sant’Antonio!
Una delle poche idee serie in circolazione è, tra l’altro, quella di fondere le attuali regioni in macro-regioni e superare, qui sì, inutili duplicazioni di costi e posti. Inoltre, da anni esiste il “prodigio” delle Città Metropolitane sulla carta, ma mai attuate: ebbene, non sarebbe opportuno pensare a queste implicazioni?
Ancora una volta il Senato delle Autonomie rischia di essere un flatus vocis, una emissione di suoni da bocche sterili o in play back. Se non si ridisegnano queste autonomie in un contesto realistico e non si restringe il potere legislativo delle regioni a confini addirittura equivalenti o ridotti rispetto al vecchio art. 117 ante-riforma, se non si accorpano le attuali regioni, se non si modifica il loro potere di spesa (comprotagonista della lievitazione del debito pubblico italiano, avviato a non essere sotto controllo, guardacaso, nel 1970, anno di inaugurazione delle Regioni), non si riesce a comprendere minimamente quale possa essere la funzione di un Senato delle Autonomie.

4) Quale potrebbe essere un nuovo e diverso Senato?

Basterebbe pensare a una ripartizione di materie fra Camera e Senato sulle quali prevedere una competenza esclusiva dell’una o dell’altro, escludendo il procedimento navetta se non per casi eccezionali.
Sulla scorta dell’esperienza di altre Camere Alte del mondo occidentale, si potrebbe riservare al nuovo Senato il potere legislativo in alcuni settori: Normativa Europea, ratifica di trattati internazionali, formulazioni di leggi-quadro alle quali debbano attenersi le Regioni nell’esercizio della loro potestà non più concorrente e (molto) ridotta (auspicabilmente nelle materie – e nemmeno tutte – dell’art. 117 vecchio stile: ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi dipendenti dalla Regione; circoscrizioni comunali; polizia locale urbana e rurale; fiere e mercati; beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed ospedaliera; istruzione artigiana e professionale e assistenza scolastica; musei e biblioteche di enti locali; turismo ed industria alberghiera; tranvie e linee automobilistiche di interesse regionale; viabilita’, acquedotti e lavori pubblici di interesse regionale; navigazione e porti lacuali; acque minerali e termali; cave e torbiere; caccia; pesca nelle acque interne; artigianato).

 

Al riguardo, peraltro, occorrerebbe – soie dit en passant – riportare alla potestà centrale alcune materie sulle quali si è misurata la disparità di trattamento fra cittadini e cittadini di diverse regioni (si pensi all’urbanistica ed edilizia e all’agricoltura e foreste). Questa competenza riservata del Senato alleggerirebbe il carico di lavoro della Camera e sarebbe anch’essa (come per tutte le diverse materie di pertinenza residuale della sola Camera dei Deputati) scevra dall’approvazione conforme dell’altro ramo parlamentare.
Al contrario, soltanto alcuni temi a numero chiuso di maggior impatto sociale e politico potrebbero tornare all’esame doppio di entrambe le Camere: le leggi di revisione costituzionale, le leggi elettorali e determinati provvedimenti sui quali l’altra Camera eserciti una sorta di diritto di veto chiedendo con maggioranza qualificata dei 2/3 il riesame di un atto già approvato con tutti i requisiti di validità dall’altro ramo.  A questo punto, torna attualissimo l’ordine del giorno Giolitti sul suffragio universale a cui ancorare l’elezione dei senatori. E dunque il tema oggi in discussione della legge elettorale fra Italicum e Porcellum, se fossimo in un paese normale, non potrebbe prescindere dal disegno di una nuova fisionomia di Senato e Camera, anche alla luce di una diminuzione del numero dei parlamentari che potrebbero garantire (in presenza di entrambi i rami) adeguata rappresentatività politica al territorio anche in misura decrementata del 20% (500 deputati e 250 senatori).

5) È legittimato il Parlamento del 2013 a una fase costituente?

Dal punto di vista giuridico, tutti i Parlamenti liberamente eletti possono provvedere alla revisione costituzionale nel rispetto dell’art. 138 della Costituzione. Dal punto si vista politico non si può negare che questa legittimazione sia carente.

 

gli usurpatori della CostituzioneNella campagna elettorale che precedette l’insediamento delle attuali Camere, il popolo sovrano che si espresse nelle urne non venne chiamato a giudicare i temi che invadono il cambiamento di gangli essenziali delle istituzioni, così come oggi sono balzati alla discussione. Gli stessi schieramenti che fuoriuscirono dal voto del 23 febbraio dello scorso anno erano diversi dall’attuale loro configurazione: alla guida del PD c’era Pierluigi Bersani e oggi c’è Matteo Renzi, il centrodestra era stretto intorno al padre-padrone Silvio Berlusconi e oggi è diviso fra Angelino Alfano e il vecchio leader, Monti e Casini erano alleati e ora si é divisa in due tronconi la stessa  formazione di Scelta Civica. Anche i Grillini apparentemente granitici, ora accusano crepe al loro interno. Se l’elettorato non fu posto di fronte alla scelta di una fase costituente così innovativa, è difficile pensare che avesse dato le stesse risposte espresse un anno fa’ in cabina elettorale. Inoltre, desta enorme tristezza e disagio pensare che la sorte della nuova architettura costituzionale del paese sia rimessa a una compagine parlamentare che, sebbene specchio del nuovo, offra soggetti impresentabili e meno affidabili di donzelle impegnate a catturate farfalle con il retino, giovanotti dall’aria di ex porta-gente delle discoteche camuffati da dirigenti di partito in completini fashion, pappagalli che ripetono meccanicamente le frasi dei leaders del tutto privi della coscienza della posta in gioco. Una fase costituente deve avere dentro di sè un anima profondamente radicata in principi etici e conoscenze tecniche che difettano nell’attuale quadro politico.  É come se la Costituzione Repubblicana finita nelle mani di saccenti sprovveduti lanciasse un grido di dolore: “Povere norme mie gettate al vento!”.  Li vediamo ogni sera, gli usurpatori della fase costituente, li vediamo battibeccare nei talk shows televisivi senza nemmeno la simpatia dei grandi giornalisti che litigavano al Processo del Lunedì di Aldo Biscardi.  Saranno questi i nuovi “Settantacinque” cioè i componenti nominati dal Presidentendell’Assemblea Costituente Giuseppe Saragat su designazione dei Gruppi Parlamentari per redigere, riuniti in Commissione, il progetto di Costituzione? Scorrendo i nomi della Commissione dei 75 salta agli occhi una bella differenza: dove sono i nuovi Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani,  Giorgio La Pira, Giovanni Leone, Aldo Moro, Costantino Mortati,  Giuseppe Di Vittorio, Antonio Giolitti, Nilde Jotti, Concetto Marchesi, Palmiro Togliatti, Lelio Basso, Sandro Pertini, Pietro Mancini, Angela Merlin, Piero Calamandrei, Emilio Lussu, Aldo Bozzi, Luigi Einaudi, Guatavo Ghidini, Meuccio Ruini, Giorgio Amendola, Umberto Terracini?

Il problema è che se vai a chiedere a gran parte dei membri del “Parlamento dei fuori corso”, gli usurpatori della fase costituente, chi siano questi illustri signori, nemmeno per sbaglio te lo sanno dire…

Scritto da

Dino Falconio

- Socialista, cattolico, scrittore, notaio in Napoli, giornalista pubblicista, Presidente del Comitato Notarile della Regione Campania, docente all’Università Federico II (Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali), Presidente della ONLUS Energia del Sorriso, Vicepresidente dell'A.S.J.A. Pontano (sezione napoletana dell'associazione ex alunni dei Padri Gesuiti), Consigliere Segretario del Circolo Canottieri Napoli, fondatore del movimento metropolitano FareRete.

  • Antonino Trovato

    E’ vero, gran parte dei membri del ” Parlamento dei fuori corso ” non sanno nemmeno chi siano gli illustri signori nominati, ma la gravità consiste nel fatto che sono talmente presuntuosi da non fare niente per leggerli ed anche studiarli per imparare. Fare politica da parte degli stessi è soltanto presentarsi bene e pubblicizzare la loro immagine, senza preoccuparsi e dimostrare le loro capacità politiche per riuscire a sollevare la politica dal degrado in cui è stata portata e si trova. Il rischio è che la nostra democrazia continua a perdere quel cordone ombelicale con le elettrici e gli elettorali, che è sempre stata ed è la sua linfa vitale.