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Il crack delle banche

“I nostri governator son tutti malfattor, ci rubano tutto quanto per farci da tutor”. Anche se può sembrare strano queste parole non provengono da un nostro contemporaneo che commenta la situazione politica odierna, ma ci giungono direttamente dal passato. Precisamente dal 1896 quando, dopo lo scandalo della Banca Romana, sulla rivista socialista L’Asino viene pubblicata una canzone satirica, diventata in seguito molto popolare, dall’emblematico titolo de “Il Crack delle Banche.” Bersaglio dell’anonimo autore, la classe politica dell’Italia liberale che mentre chiede “necessari sacrifici” alla popolazione, fornisce protezione e fiumi di “aiuti” pubblici agli autori del più colossale scandalo bancario della storia del nostro paese.

Negli ultimi anni dell’ Ottocento in Italia si costruiscono migliaia di edifici e fabbriche e si pensa che i prezzi immobiliari non potranno mai calare. C’è euforia. Le banche si convincono che da questa fase economica si può solo guadagnare (cosa del resto vera visto l’arricchimento medio dei banchieri) e qualsiasi società immobiliare può ricevere prestiti dalle banche. Tuttavia questo breve boom economico basato sulla speculazione (che detto per inciso assomiglia molto a quanto accaduto in Spagna al giorno d’oggi) s’interrompe bruscamente. Nell’euforia del mattone, i banchieri italiani non avevano prestato la dovuta attenzione alle credenziali dei costrutti che in molti casi si sono rivelati dei veri e propri truffatori o semplicemente non sono riusciti a sopportare la crisi e a onorare i propri debiti. A causa di questa superficialità molte banche, tra cui la Banca Tiberina, il Credito Mobiliare e la Banca Generale sono costrette a chiudere i battenti  ed anche uno dei sei istituti di credito autorizzati a emettere moneta corrente, La Banca Romana, ex Banca dello Stato Pontificio, rischia seriamente di fallire. Per evitare il tracollo, però, ai banchieri romani viene un’idea geniale per affrontare la crisi: emettere moneta senza  nessuna autorizzazione. Agendo praticamente come la banda del torchio del famoso film di Totò, la banca emette l’impressionate cifra di nove milioni di lire false, addirittura con lo stesso numero di serie. Tuttavia, nonostante che in Italia con una buona protezione politica e con le conoscenze giuste si può far tutto (ovviamente parliamo del passato, oggi  invece le cose sono molto cambiate. O no?), ben presto il problema delle lire false diviene talmente tanto grosso da non poter più essere nascosto. Il Ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Agricoltura del governo Crispi, Luigi Miceli, dispone un’ispezione su tutti gli istituti di emissione che viene affidata al senatore Giuseppe Giacomo Alvisi. Curiosamente gli autori della truffa vengono solo accusati di imperizia e il disavanzo viene saldato direttamente con i soldi dello stato.  Il nuovo Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, si rifiuta addirittura di dare l’autorizzazione alla creazione di una ulteriore commissione d’inchiesta parlamentare per indagare sui fatti anche perché lo stesso Umberto I, re d’Italia, l’intera corte e buona parte dei cardinali sono indebitati fino al collo con la banca capitolina.
Il 20 gennaio 1893, nonostante le pressioni per insabbiare lo scandalo, la magistratura incomincia ad indagare e finiscono in cella il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo, e il direttore generale, Michele Lazzaroni. Dal carcere, il governatore Tanlongo vuota  il sacco e ammette che ben ventidue deputati, svariati prelati e due presidenti del Consiglio, Giovanni Giolitti e Francesco Crispi, avevano avuto da sempre l’accesso a prestiti agevolati per loro e per i loro amici in tutte le filiali della banca.  Nonostante le prove schiaccianti e la deposizione dei vertici della banca, il processo del  1894 si conclude con l’assoluzione di tutti gli imputati e ovviamente nessuna menzione al coinvolgimento di politici e di esponenti cattolici.  La cosa più divertente dell’intera vicenda è che la sera prima della sentenza, dalle stanze del tribunale di Roma spariscono “misteriosamente”  tutti i documenti e le prove delle malefatte per i cui i giudici si vedono costretti ad assolvere tutti gli imputanti per mancanza di prove. Dopo il processo molte cose mutano in Italia (il 10 agosto del 1893 viene fondata la Banca d’Italia), ma poco cambia nella vita degli autori della più grande truffa bancaria d’Italia. Addirittura il barone Michele Lazzaroni (mai cognome fu più appropriato) viene nominato senatore direttamente dal Re. E così, ancora una volta, agli italiani costretti a fare “i sacrifici” per il bene del paese e per il futuro dei propri figli non resta che affidarsi all’arma dell’umorismo, sperando che prima o poi in Italia si possa vedere un “Malfattor” finalmente affidato alle patrie galere e non solo premiato con un seggio parlamentare…
“Noi siam tre celebri ladron, che per aver rubato ci han fatto senator!”

 

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