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21 Gen 2014

In Italia cultura non è sinonimo di lavoro

cultura lavoro

Il 5% della ricchezza dell’Italia è prodotta da chi ha un lavoro nel mondo della cultura, eppure gli investimenti in formazione degli addetti, per la manutenzione e la promozione del patrimonio sono sempre troppo pochi.

E’ facile dire “l’Italia potrebbe campare con la cultura” ma tra non molti anni sarà quasi impossibile trovare addetti capaci di conservare il nostro patrimonio (per quantità e qualità il più rappresentato all’Unesco),  accrescerlo con nuove opere e mantenere in vita il tanto declamato “made in Italy”.

La parola “cultura” è mal usata in Italia e forse anche per questo non si fanno investimenti seri nel settore, soprattutto sono pochi quelli finalizzati alla creazione di nuovi posti di lavoro. In primis non se ne fanno nella formazione.

Gli strascichi della riforma Gelmini sono silenti ma pericolosissimi: ancora non si è risolta la questione dell’eliminazione degli Istituti d’Arte, fondamentali per la formazione di chi materialmente quel Made in Italy poi dovrà produrlo, e nemmeno quella della riduzione o addirittura cancellazione delle discipline artistiche (disegno e Storia dell’Arte) nei «nuovi» licei creati dall’ultimo governo Berlusconi, premessa per la formazione artistica e storico-artistica di alto livello.

Non è valsa a nulla la raccolta di 15mila firme, sostenuta dallo stesso ministro Bray, che chiedeva alla  Commissione Cultura Scienze e Istruzione della Camera il ripristino della Storia dell’arte nella Scuola secondaria: l’emendamento è stato bocciato perché, dice la motivazione, reintrodurre la materia «significherebbe aumentare una spesa che è stata tagliata, perché il Paese non è in grado di sostenerla».

Però, ricordiamolo, l’Italia è quel Paese che potrebbe “campare con la cultura”, come se quest’ultima fosse un pozzo senza fondo, che si autoalimenta e che genera ricchezza per il solo fatto di esistere.

I corsi universitari che formano i futuri storici dell’arte o gli archeologi e le scuole di formazione per restauratori o scenografi (ad esempio) sono sempre ultimi nei piani di investimento, la ricerca in questi settori arranca e il tutto si protrae ormai sembra quasi per inerzia.

cultura lavoroL’architetto Massimiliano Fuksas, uno dei più celebri al mondo, ha da poco compiuto 70 anni e, sebbene da Roma abbia avuto commissionato solo un lavoro (la famosa ed interminata Nuvola di Roma) mentre ha costruito grandi opere in moltissime capitali, non smette di crederci all’idea che cultura e sviluppo sociale debbano per forza coesistere: per il suo studio romano ha assunto più di 100 architetti, dimostrando coi fatti che arte e lavoro sono necessariamente sinonimi, che senza il lavoro l’arte non può essere prodotta e che nel Paese c’è ancora spazio per una nuova generazione di architetti made in Italy.

Solo che, per uno strano paradosso, Massimiliano Fuksas è più conosciuto all’estero che in Italia. Ma guarda un po’.

Qualcuno dirà: “Bisognerà tornare a studiare arte a scuola!”
Non si può, l’hanno cancellata perché costa troppo. 

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