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Qualche appunto sulla sanità italiana

Nel 1988 mi trasferii in America. C’era Reagan come Presidente. Avevo 39 anni, una moglie e due figlie. Abbiamo vissuto nell’upper east-side di Manhattan per 3 anni.

Un giorno capita che un amico con un grave problema a una sua figlia mi chiede di aiutarlo ad entrare in contatto con un grande chirurgo dei tumori che lavora in uno degli ospedali del campus, lo Sloan Kettering Memorial Hospital. Io chiamo, mi qualifico e chiedo un appuntamento. La signorina, gentilissima, mi dà l’appuntamento e mi chiede il numero della carta di credito. Di fronte al mio imbarazzo, lei ribadisce con calma, gentilezza ed eleganza che senza di quello e del deposito di 1500 dollari, la visita non avrebbe potuto essere effettuata. Quell’episodio mi segnò. Decisi che mai il mio paese sarebbe stato così.

Al termine del mio lungo periodo sabbatico, ebbi un’offerta di lavoro. Ma io avevo già il mio lavoro a Napoli. Era un lavoro, a tempo indeterminato, mal pagato, ma stabile, in un contesto di protezione sociale inimmaginabile in USA. Là in America avrei guadagnato molto di più, ma avrei navigato senza rete. Un lavoro a tempo indeterminato, una permanent position, come dicono loro, l’avrei pure potuta conquistare, ma nel tempo e dopo essermi fatto strada in un mondo molto, molto competitivo. Mia moglie sarebbe rimasta. Io ebbi paura.

A quel tempo, d’altra parte, il sistema Italia era preso ad esempio.

Dopo Regan arrivò Bush padre, ma poi, finalmente, nel 1993 viene eletto Bill Clinton. Uno degli elementi più forti del suo programma era la riforma sanitaria, per dare copertura a quegli americani che non potevano pagarsi un’assicurazione né erano poveri abbastanza per godere dell’assistenza sanitaria pubblica. Hilary Clinton si mise a lavorare su questo e secondo voi che cosa prese a modello? Il nostro sistema sanitario nazionale, quello di allora. Clinton fallì e non è detto ancora che Obama la spunti. Ma quello fu lo schema.

Oggi siamo di fronte ad un orizzonte completamente diverso. Rimanere in questo paese non ha la stessa attrattiva che ebbe per me quando compii la scelta di rientrare. Precariato e mancanza di opportunità stanno spingendo i nostri giovani, nella migliore delle ipotesi a spostarsi in altre regioni, e nella peggiore ad emigrare.

Secondo fonti riportate da Adnkronos, nel periodo che va dal 2009 al 2012 le richieste di attestato di conformità UE, un documento indispensabile per poter lavorare all’estero, sono aumentate del 40%. Cioè  4.782 medici hanno lasciato l’Italia per emigrare verso Inghilterra, Spagna e Francia. Questi giovani cercano un sistema meritocratico, e formazione adeguata.

Non gli stipendi molto più elevati, dunque, ma opportunità formative ed occupazionali, insieme con una sana competitività, sono le vere ragioni della fuga, specialmente verso l’Inghilterra, dove c’è carenza di medici. Quest’ anno una delle mie migliori allieve, alla quale avevo offerto anche la possibilità di concorrere ad un dottorato di ricerca, ha preferito tornare a Londra, dove era già stata per la sua “outside elective” durante la specializzazione. E vi assicuro che lavorare nel sistema ospedaliero anglosassone non è comunque cosa da poco: oltre all’iscrizione all’ordine dei medici inglese, il General Medical Council, bisogna superare molti colloqui, prove pratiche e teoriche, ed ovviamente bisogna avere una assoluta padronanza della lingua.

E infine, devo sottolineare che chi cerca l’Inghilterra sa anche di andar a sottoporsi a ritmi di lavoro forsennati, anche di 70-80 ore settimanali (come in America). Non si tratta quindi di sfaticati.

Ora anche la Svezia richiede molti medici dall’estero perché ci sono gravi carenze e c’è il vantaggio là che il livello richiesto di conoscenza dell’inglese è più accessibile e c’è un maggior riconoscimento degli anni di formazione in Italia.

Insomma, i nostri soci Europei si sono attrezzati per scaricare sul nostro sistema i costi della formazione e poi utilizzare le professionalità da noi formate, mentre noi stiamo a guardare e la qualità del nostro sistema sanitario si riduce.

Ma noi, nel profondo Sud abbiamo anche la piaga dell’emigrazione interna. Due giovani laureati su tre emigrano se non all’estero, verso altre regioni italiane, dove sono assunti, tutti, a tempo indeterminato, mentre quelli che restano qui, in regione, trovano contratti a termine sottopagati, per lo più in strutture private. Per il nostro sistema sanitario regionale il problema potrebbe trasformarsi in una vera emergenza se si dovessero interrompere i rapporti di collaborazione con il personale precario, su cui è stato scaricato gran parte del peso lavorativo, specialmente nell’area dell’emergenza-urgenza.

Due ulteriori fattori allontanano le nostre forze migliori: la contrazione della spesa corrente e l’incapacità di combattere sprechi e sacche di improduttività.

Il rapporto Ceis, presentato il 26/9 alla Camera ha documentato che la spesa sanitaria italiana, considerando entrambe le componenti,  pubblica e privata, è ormai tra le più basse d’Europa: quasi il 24% in meno rispetto alla media dell’Europa a 15. Invece di andare ad un riequilibrio ed una razionalizzazione delle risorse, si è proceduto al loro ulteriore razionamento. Così si sono evitate scelte politiche difficili, ma si è, ancora una volta, rinunciato alla funzione primaria della politica che è appunto quella di operare scelte.

Io naturalmente non ho ricette in tasca, ma posso dire tre cose.

Prima di tutto che, malgrado l’inadeguatezza dei nostri strumenti, noi formiamo ottimi medici e che sarebbe molto vantaggioso tenerseli. Sappiamo che le cose stanno così, perché abbiamo molti riconoscimenti e non solo nazionali.

Secondo, che tagliare i costi della medicina è dissennato, perché non solo si peggiora la qualità dell’assistenza, ma si corrono anche rischi legali che si scaricano sui medici che, certo, sono a volte colpevoli di negligenza, ma spesso in realtà vittime essi stessi delle carenze strutturali. I costi possono essere ridotti riportando le difformità regionali del mercato ad unità. Io voglio pagare per una siringa la stessa cifra in Campania, in Lombardia ed in Sardegna. Il Sistema sanitario deve tornare nazionale e deve essere riconsegnato ad una programmazione tecnica, sottraendolo alla influenza nefasta della politica.

Terzo, se la politica svolgesse la sua funzione, che è quella di fare scelte, invece di eseguire tagli indiscriminati che saprei fare anche io e invadere le aziende ospedaliere, probabilmente riusciremmo a risparmiare pur aumentando gli investimenti.

Infine chiudo con due considerazioni brevissime.

Il sistema sanitario andava molto meglio e spendeva molto meno, perché i costi erano più controllati e standardizzati quando le risorse erano sottratte al mercanteggiamento politico locale. Vorrei che si considerasse meglio di quanto non si sia fatto finora la necessità di garantire ad ogni cittadino il diritto alle migliori cure possibili in caso di malattia, ma nel contempo, riconoscesse che questo sistema va profondamente modificato, eliminando prima di tutto l’inquinamento politico che lo sta rovinando.

E infine, non posso far finta di non sapere che il mio ospedale, il Policlinico Federico II, che è stato nel lontano passato anche ai primi posti nelle statistiche nazionali, è finito nel fanalino di coda. La mia unità ha perso più del 60% del personale infermieristico nell’arco di 3 anni. Non abbiamo avuto un solo rimpiazzo. Così non si possono fare i turni, abbiamo dovuto accorparci ad altre strutture e chiudere l’apertura all’emergenza territoriale che la Medicina d’Urgenza provvedeva, lasciando solo l’unità coronarica. La stessa cosa è capitata a tante altre strutture. E voglio tacere sulla possibilità finanziaria che ha un ospedale come il San Raffaele nell’indotto lombardo, rispetto a quella che abbiamo noi nel nostro territorio.

Chi si diverte a fare queste classifiche farebbe bene a pesare i giudizi mettendo però a denominatore la capacità (capacità non abilità) di trovare fondi delle realtà territoriali in cui si opera. Ma ovviamente questo riguarda anche l’abilità delle pubbliche amministrazioni. Chi è stato sorpreso dal sapere che la Toscana eroga le cure migliori in Italia?

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Scritto da

Giovanni de Simone

- Prof. ordinario di medicina interna, Federico II, Napoli