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Una proposta per la “Crescita Felice”:Università e Ricerca

Un argomento che viene spesso utilizzato per dimostrare che l’offerta dell’Università Pubblica in Italia è sovrabbondante, e che pertanto costituisce uno spreco che deve essere tagliato, è la presenza di un significativo numero di laureati disoccupati.

Se, si dice, vi sono giovani laureati disoccupati, ciò significa che l’Università ne sforna “troppi”. Questa sovrabbondanza di offerta non serve ai giovani, ma solo agli stessi docenti universitari, perché permette la creazione di cattedre.

La soluzione proposta prevede pertanto una drastica cura dimagrante. Se si riduce l’offerta si ridurranno anche i laureati, che così “troveranno subito lavoro”, e sarà anche evitato così l’odioso fenomeno della “fuga dei cervelli”.

Tale soluzione è stata messa in atto negli ultimi anni con una serie di interventi legislativi che hanno cancellato circa 2000 corsi di laurea, il tutto accompagnato da una campagna di stampa appositamente orchestrata, che si è appoggiata su alcune situazioni paradossali con corsi (in realtà una decina) che avevano numeri di iscritti contabili sulle dita di una mano.

Ma davvero la riduzione dell’offerta formativa, e in prospettiva la riduzione del numero di laureati, possono costituire un elemento positivo per il Sistema Paese?

I dati di Almalaurea smentiscono una prima leggenda: quella che vorrebbe i laureati “più” disoccupati di chi ha titoli di studio inferiori. Le statistiche ci dicono che lavora il 77% dei laureati contro il 66% dei diplomati. E, come messo in evidenza anche in un post precedente, fatta 100 la retribuzione media di un diplomato, quella di un laureato è pari a 155.

Tuttavia vi sono ragioni ben più forti per ritenere assolutamente deleterio il processo di riduzione dell’offerta universitaria.

La debolezza intrinseca del sistema industriale italiano è legata alle dimensioni, in generale assai modeste, delle imprese. Questo “nanismo” rende normalmente difficili gli investimenti in Ricerca e Innovazione, portando le imprese a tentare una impossibile sfida sul piano del costo del lavoro con i concorrenti stranieri. Vi è così un’offerta di posti di lavoro di livello elevato, per i quali è richiesto un titolo di studio superiore, limitata, da cui la disoccupazione intellettuale.

Ma la concorrenza sul manifatturiero di basso livello, sui prodotti dai costi contenuti, non è assolutamente sostenibile quando i tuoi concorrenti si chiamano Cina o India. L’approccio deve allora essere diverso e basarsi su prodotti e servizi innovativi e di elevata qualità, partendo dall’esempio di alcune eccellenze che comunque resistono nel Sistema Paese. Ma un approccio del genere richiede forti investimenti in Ricerca. Investimenti che lo Stato deve sostenere per consentire alle piccole imprese italiane di crescere e rafforzarsi adeguatamente.

D’altro canto anche il numero di laureati deve crescere, raggiungendo almeno la media dei paesi OCSE, per fornire a queste imprese il personale adeguato a fare innovazione.

Tutto ciò richiede ovviamente investimenti piuttosto che tagli, incremento di spesa in un periodo di austerity. Ma questa spesa può essere rapidamente e strutturalmente recuperata inducendo un processo di “crescita felice”, grazie alla costruzione di un nuovo tessuto produttivo fondato sulla conoscenza e sull’innovazione.

Suona stonato come oggi gli Stati che investono maggiormente in Ricerca e nelle loro Università siano alcuni paesi che non brillano per Democrazia, dagli Emirati del Golfo al Kazakistan.

Nelle nostre Democrazie Occidentali troviamo invece demagoghi che vorrebbero venderci la “decrescita felice” come soluzione alla crisi.

Scritto da

Angelo Leopardi

- Ricercatore di Idraulica all'Universita' di Cassino. Si occupa anche dei problemi dell'universita' e della ricerca in Italia.