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18 Giu 2012

La crisi e il Pd

di Angelo Giubileo.
In occasione della seconda Conferenza nazionale per il lavoro, svoltasi a Napoli il 15 u.s., il Pd ha presentato un sostanzioso ed articolato Documento di analisi, corredato da grafici e tabelle di dati, e di proposte, in pratica un vero e proprio Rapporto, “un contributo di analisi e qualche indicazione circoscritta di policy” al Programma Nazionale di Riforma (PNR) predisposto dal governo Monti.
Nella prima parte, il Rapporto introduce ad un’analisi, che tuttavia premetto subito ritengo poco convincente, in ordine all’emergenza della crisi finanziaria nei paesi dell’eurozona in disavanzo. Nel Documento si legge che “alle responsabilità dei paesi mediterranei – che invece di indirizzare le enormi quantità di liquidità creata dal sistema bancario verso gli investimenti produttivi (privati e pubblici) le hanno utilizzate per finanziare prevalentemente la bolla immobiliare, il consumo a debito o la spesa corrente – si sommano quelle dei paesi in avanzo, che per anni hanno visto incrementi salariali inferiori alla crescita della produttività”. Ma soprattutto: “non va dimenticato come la stessa Germania, ribattezzata da tutti i media la ‘locomotiva d’Europa’, più che trainare la crescita dell’intero continente si sia fatta trainare per quasi un decennio proprio dalla domanda di beni – finanziata a debito – da parte dei famigerati PIGS”. Per poi concludere: “senza i ‘vizi’ dei paesi in disavanzo non si sarebbero avute le ‘virtù’ dei paesi in avanzo” (pag. 30).
Questa sostanziale diversa chiave di lettura, che si oppone a quella relativa al fatto che i paesi in disavanzo avrebbero in buona sostanza vissuto oltre le proprie possibilità, consente al Pd di agganciare le proposte di uscita dalla crisi finanziaria attuale al principio di solidarietà, e quindi di “internalizzare nella UME il problema del debito di uno Stato membro”. In prospettiva, si propone:
un primo passo potrebbe essere quello di consentire all’ESM di finanziarsi direttamente sul mercato attraverso l’emissione di obbligazioni europee garantite solidalmente da tutti i paesi;
in secondo luogo, si tratta di permettere alla BCE di operare come prestatore di ultima istanza
– infine, depotenziare il ruolo delle agenzie di rating, rimuovendo l’obbligo di certificazione per la negoziazione dei titoli (pagg. 34-39).
Nell’immediato, viceversa, si ritiene che “i vincoli (adottati e in procinto di essere adottati) alle decisioni di finanza pubblica, impliciti nel profilo di riduzione del debito definito dalle regole europee, necessitino di uno sforzo, in termini di valore del saldo primario in rapporto al PIL, che dipende dal mix fra crescita e tassi d’interesse che si verificherà negli anni a venire” (pag. 62); e pertanto “l’ipotesi di un aggiustamento della finanza pubblica italiana non può essere scissa dall’adozione di misure in grado di innalzare in misura significativa e credibilmente la crescita potenziale dell’economia” (pag. 66).
Il Rapporto pone quindi l’accento principalmente sulle cause e le proposte di soluzione per uscire dalla crisi produttiva, di tipo economico, che nel nostro paese ha preceduto e precede di gran lunga quella finanziaria dell’ultimo triennio circa.
In ordine alla crisi economica produttiva, l’analisi è convincente, e non solo in ordine alle cause, la cui principale è senz’altro rappresentata, in base ad una crescita media dell’1,1% all’anno nel periodo 2000-2007 e dello 0,2% considerando l’intero decennio, compresa la recessione finale, da una sostanziale perdita di competitività della nostra impresa per più del 90% strutturata in forma di PMI.
Nel Documento attenta e puntuale risulta anche la critica indirizzata alle strategie complessive di politica industriale italiana degli ultimi venti anni centrate sull’obiettivo della riduzione del costo del lavoro, nella speranza, rivelatasi vana, di fronteggiare la maggiore competizione originata dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico. In tale ottica, un ruolo, tutto sommato giudicato “regressivo”, è stato esercitato dai governi che si sono succeduti nel tempo mediante l’implementazione di nuove forme di contrattazione di lavoro atipico, introdotte al sistema in ragione di un’abusata flessibilizzazione del rapporto di lavoro.
Pur ribadendo “i nodi nelle caratteristiche dimensionali e settoriali della struttura produttiva”, il Rapporto propone innanzitutto l’adozione di una politica industriale “che favorisca crescita e occupazione”. In modo perentorio, si afferma che “con l’ingresso nell’euro e la fine della svalutazione competitiva, anziché approfittare dei bassi tassi di interesse e investire in innovazione tecnologica, prodotti, nuovi mercati e risorse umane, la maggioranza delle imprese ha optato per investimenti finanziari e immobiliari, spesso non aziendali ma personali, portando fuori dall’impresa gran parte degli utili, con redistribuzioni ai soci che in alcuni settori si sono avvicinate al 100%”. E pertanto, considerato l’impianto complessivo dell’economia produttiva esistente, l’obiettivo mancato e ancora utile da perseguire è quello di aumentare la produttività nel settore manifatturiero (pag. 127).
Nel complesso della strategia di una nuova politica industriale, il Pd individua le seguenti linee d’azione (pagg. 131-152):
potenziare il Piano di azione e coesione per il Sud, predisposto dall’attuale ministro Barca, ben oltre l’investimento previsto per infrastrutture ferroviarie, agenda digitale, istruzione e credito d’imposta per l’occupazione, prevedendo misure d’intervento per le aree della scuola, giustizia e sicurezza;
modificare il sistema di tassazione societaria, in modo da favorire il rafforzamento patrimoniale e l’investimento delle imprese;
adottare una politica coordinata a sostegno della creazione e della crescita di nuova impresa, con particolare riferimento all’impresa innovativa e technology based, in ordine al settore emergente della green economy, da promuovere in forme prevalentemente mutualistiche e cooperative;
rafforzare il sistema di relazioni tra le impresse esistenti;
– sostenere una legislazione di contrasto alla privatizzazione della conoscenza”, nel senso di impedire che la proprietà intellettuale costituisca una barriera all’ingresso nei settori innovativi.
In aggiunta a tali proposte, il Documento prevede anche di “rimettere la distribuzione al centro della politica economica” (pag. 76-77), perché “in società più diseguali si vive peggio” e “ridurre le diseguaglianze può rilanciare la domanda”. Nell’ambito della strategia di redistribuzione del reddito, per quanto concerne il settore del lavoro produttivo, il Pd ritiene che occorra innanzitutto incrementare l’occupazione e la retribuzione media mensile delle donne, cifrata “inferiore del 20% rispetto a quella maschile” (pag. 114). Occorrerebbe, inoltre, rispetto all’adozione generalizzata del sistema di calcolo contributivo per le pensioni, che molto bene è detto costituire “lo specchio del mercato del lavoro in Italia”, ridurre la precarizzazione del rapporto di lavoro e, a partire dalla riforma del lavoro in agenda, sviluppare “la capacità di garantire agli individui carriere lunghe e continuative (…), precondizione necessaria per assicurare pensioni adeguate” (pag. 115).
In conclusione, si tratta senz’altro di un Documento in base al quale occorre ripensare le strategie di politica industriale per gli anni che seguiranno.

Scritto da

Redazione LPP

- Redazione de La Prima Pietra