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19 Apr 2013

La socialdemocrazia svedese a congresso

I socialdemocratici svedesi hanno appena concluso un interessante e vivacissimo congresso, svoltosi a Götebörg da giovedì a domenica scorsi. Il partito al mondo con più successo nel governare una democrazia (solo due brevi intervalli all’opposizione dal 1932 al 2006) doveva legittimare il nuovo leader, finora eletto solo negli organi centrali. Ma anche scrivere un programma capace di finalizzare il grande vantaggio di cui la sinistra oggi gode nei sondaggi rispetto alla coalizione “borghese“ al governo. Il leader in carica Stefan Löfven non aveva rivali, e il suo discorso di grande effetto gli ha spianato maggiormente la strada. Con Löfven si torna alle basi del consenso popolare socialdemocratico: per la prima volta un leader sindacale (metalmeccanico) passa direttamente alla guida del partito. Ciò non per rintanarsi nella tradizione, ma perché è evidente anche in Svezia che in ogni necessario e profondo rinnovamento rappresentare il lavoro rimane assolutamente centrale. Tantopiù se occorre ristabilizzare un partito che, dopo avere cambiato solo cinque leaders in oltre un secolo (e sempre per avvenuta morte o consensuale ritiro) ultimamente aveva trovato alla sua testa solo personaggi caduchi. Urgeva ritrovare un progetto di lunga lena.

Il partito a Götebörg si è così messo alla prova, ponendo a Löfven soprattutto tre grandi e dirimenti questioni: un’iniziativa per assicurare sempre entro 90 giorni o istruzione o lavoro ai giovani disoccupati; una limitazione dei profitti privati nei servizi di welfare; una revisione dei congedi parentali che assicuri più parità fra padri e madri. Argomenti che vanno al cuore del modello sociale nordico ed europeo.

Nel primo caso l’organizzazione giovanile SSU, che aveva proposto la mozione sui “90 giorni”, ha registrato un successo pieno, sottolineato dalla grande esultanza dei giovani socialisti nella grande sala di Götebörg. Nei suoi sei anni di governo la coalizione liberal-conservatrice ha tagliato di molto le risorse a disposizione delle politiche attive per il lavoro, diradandole o riducendole spesso a corsi per la redazione dei curricula o per la ricerca autonoma di un‘occupazione. Questo tipo di politiche mirano ad abbandonare i giovani ad un puro mercato più precarizzante, aprendo anche la Svezia ai bassi salari. Löfven, invece, intende ribadire che il sistema di apprendimento e innovazione deve assicurare la formazione continua della competenze ma, al contempo, investire affinché le aziende innovino effettivamente, e quindi richiedano le competenze formate. Questo, del resto, è il vero propellente di un sistema nordico di palese successo, non la flexicurity a sé stante.

Anche sulla sempre maggiore interazione fra welfare pubblico e impresa “sociale” privata si è toccato un tema cruciale. Le riforme per “la libera scelta“ (risorse pubbliche concesse ai cittadini affinché le usino scegliendo liberamente istituti privati o pubblici) hanno prodotto risultati molto regressivi nella scuola (misurati dai test PISA) e peggioramenti anche nella sanità e nell’assistenza alla terza età. L’esperienza svedese indica che per estrarre profitto privato dal welfare qualità e personale vengono compressi, drenando ricchezza pubblica che perlopiù diviene esportazione di capitali. Solo nel 2011 i 2,3 miliardi di Corone di profitti privati avrebbero permesso di assumere 5750 addetti nel welfare pubblico. Le riforme “per la libera scelta” erano però state introdotte dagli stessi socialdemocratici nei “blairiani“ anni 1990, e difficilmente potevano essere rinnegate del tutto. Il partito aveva proposto al congresso di cambiare, ma solo imponendo rigidi criteri qualitativi (nel personale, nei servizi, nei materiali) per ogni istituto, pubblico o “profit“. Alcune federazioni locali (come Malmö) chiedevano invece la completa abolizione delle riforme degli anni ‘90. La proposta del sindacato LO è parsa la più vincente: rigorosi parametri di qualità minima e, comunque, apertura agli istituti “for profit“ solo se richiesto da referendum comunali. Numerosi, comunque, gli scontenti. Ma è stato soprattutto sui congedi parentali che molti (specie la rete femminista interna) si sono dichiarati insoddisfatti. Numerosi delegati avrebbero voluto in sostanza che i congedi parentali e le relative indennità monetarie fossero obbligatoriamente spartite in modo più eguale fra uomini e donne. Ma Löfven ha difeso lo status quo, lasciando alle famiglie la scelta che, dicono i dati, finisce per pesare (per i 4/5) sulle donne. Si è accusato il partito di cedere a sondaggi discutibili, favorevoli a lasciare tutto com’è. Ma il problema è più profondo: Löfven sa che la differenza salariale è la vera causa del fatto che ad assumersi il carico della cura sono ancora quasi sempre le madri: le donne, lavorando spesso nel pubblico e nel welfare guadagnano assai meno degli uomini, e rinunciano meno a malincuore al salario pieno. Interessante, proprio per questo, il dibattito che ne è nato. Si è ricordato il 1971, anno in cui la riforma fiscale distinse i redditi e i carichi fiscali dei coniugi. Olof Palme ricevette oltre 210.000 lettere di protesta senza ritirare questa misura che favoriva grandemente le famiglie bireddito, provocando un grande afflusso delle donne nel mercato del lavoro. Si discute insomma animatamente sulla capacità attuale della Socialdemocrazia di aprire nuove strade, ovvero di “fare“ opinione anziché subirla. Un dilemma di “egemonia” che interroga l’intera sinistra europea.

Scritto da

Paolo Borioni

- Storico, dottore di ricerca all'università di Copenaghen, collaboratore del Center for NordicStudies e dell'Università di Helsinki. Si occupa di storia dei paesi nordici, storia del socialismo, welfare state, storia delle istituzioni politiche, temi su cui ha all'attivo molte pubblicazioni e articoli. Contribuisce regolarmente alla stampa quotidiana e a riviste di dibattito politico-culturale. Tifoso della SSLazio 1900 da tre generazioni, di sinistra da quattro generazioni.