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25 Lug 2014

L’eccesso di rigore è un pericolo anche per i paesi virtuosi

l43-europa-120718175411_medium E’ in atto uno scontro fra chi, come il nostro governo, richiede una maggiore flessibilità nell’ottenimento dell’equilibrio nel deficit e chi invece non sa che ripetere, fra tutti il liberal-conservatore finlandese Jyrki Katainen, che in sostanza nessuna ulteriore flessibilità può essere ottenuta in base allo stato riconosciuto di crisi ciclica. In sede di trattativa ovviamente ribattere su questo punto è essenziale per il governo italiano e i suoi potenziali alleati (come Hollande). E’ infatti importante determinare quale sia la percentuale di discostamento dei conti italiani dagli accordi dovuta alla crisi. Ma occorre sapere che, innanzitutto, come notano molti ben più esperti di noi, ciò non è semplice proprio in sede di calcolo. Ne deriva la necessità di impostare una strategia argomentativa e di alleanze che rafforzi la battaglia su questo punto e al contempo allarghi il fronte, nonché aumenti il numero  dei possibili sbocchi. Innanzitutto, infatti, proprio per la difficoltà nel determinare quanto deficit dipende dalla  congiuntura e quanto invece dipende da altro è necessario usare una gamma più ampia di argomenti atti a favorire un’interpretazione favorevole a noi e, ci sentiamo di dire, alla reale possibilità di uscire  dalla crisi. A tal fine occorrono fra le altre due cose: descrivere la questione nazionale italiana in termini meno auto-punitivi di quanto si sente spesso fare e sfruttare meglio il modo in cui la stessa Germania di Schröder, dal 2003 in poi, ha attuato le proprie riforme. La prima questione va posta come segue: l’Italia ha mostrato negli ultimi venti anni una capacità di stare vicino agli obbiettivi di deficit e avanzo primario che è per certo migliore della media europea. Compresa la Germania. La storia recente italiana è dunque un insegnamento per tutta l’Europa in genere: si riesce ad avere un’economia sana, cioè equilibrata nei conti e capace di controllare il debito complessivo, soprattutto se si investe nella propria innovazione socioeconomica. Il problema italiano è che all’incrocio di due fasi cruciali (prima Maastricht e poi l’esplodere della crisi) questa modernizzazione, per motivi storici, non era stata ultimata nonostante il grande progresso compiuto dal nostro paese dal 1945 in poi. Ergo, oltre alla maggiore flessibilità congiunturale nei conti, l’Italia e i suoi alleati devono soprattutto ottenere un ciclo di investimenti che vada molto oltre i pochi decimali di punto ottenibili anche con una interpretazione favorevole dei trattati. Ciò è vitale sia per abbassare il debito stabilmente in Italia sia per far rinascere la domanda interna della UE. La strada della continua deflazione salariale e della svalutazione del lavoro va nella direzione giusto opposta: non rende davvero competitivi i paesi in difficoltà e potrebbe anzi,  vista la grande integrazione delle economie UE, sospingere verso il basso anche i salari di altri paesi. Se, insomma, si procede svalutando il lavoro e il salario italiano anche l’effetto del Salario Minimo tedesco appena introdotto potrebbe essere minore di quanto ci si aspetti. Tutto questo riguarda insomma anche la Germania e i paesi nordici: anche in quei paesi la ripresa e la produzione sono deludenti, ed emerge chiaramente la necessità di puntare sulla domanda interna europea. Per esempio, iil premier conservatore svedese Reinfeldt sta scontando gravemente il non avere sfruttato meglio il grande surplus economico della Svezia per far rinascere la domanda interna e una migliore occupazione dei suoi concittadini lavoratori. Egli non a caso è in gravissimo svantaggio nei sondaggi (le elezioni sono a settembre). In quel caso sembra proprio che a vincere saranno i socialdemocratici e la sinistra, ma come in Francia a vincere potrebbe essere Marine Le Pen. Non se ne esce senza un programma di investimenti in tutti i paesi e di maggiore domanda interna nei paesi in surplus. Da questo punto di vista è senz’altro un bene che il vice cancelliere tedesco, il leader socialdemocratico Sigmar Gabriel, sia anche ministro dell’economia. Egli ripete e ricorda spesso due cose: la prima è che quando la Germania fece le sue riforme con Schröder essa violò alla grande le regole europee sul deficit: se non l’avesse fatto l’impatto della disoccupazione sarebbe stato insostenibile e la Germania non avrebbe realizzato i successi che oggi vanta. Basta ascoltare Gabriel e si capisce che nella UE non esistono popoli reietti e popoli virtuosi, ma solo popoli che, con tutti i loro difetti, riescono ad utilizzare al meglio i mezzi a loro disposizione, per esempio la flessibilità delle regole. La seconda cosa che spesso Gabriel ricorda è appunto la necessità di un grande piano di investimenti per la modernizzazione industriale di tutta Europa. Oltre alla domanda effettiva garantita dall’investimento produttivo qualificato e massiccio (anche in infrastrutture, energia, rinnovamento di patrimonio immobiliare e territorio) questo tipo di scenario apre anche a migliori salari ed occupazione più stabile. Inoltre, proprio una modernizzazione più diffusa (per esempio nel nostro Mezzogiorno) può alimentare migliore fiducia nel fatto che ogni singolo paese (proprio come la Germania nel 2003) può recuperare facilmente deficit e passivo nella bilancia dei pagamenti perché ha i mezzi produttivi per rimediarne gli effetti. Ecco allora che sarebbe più semplice far nascere un’Unione anche basata sulla maggiore fiducia, sospinta dal fatto che, quando possono, sono molti e diversi i paesi i quali, remunerando il lavoro meglio di oggi, possono ampliare il mercato europeo senza però (grazie sempre agli investimenti innovativi) piombare in modo incontrollato nei vari deficit. Ne può nascere un’Europa diversa, maggiormente ispirata a quell’intreccio di Keynes e Schumpeter che fu un tempo il modello socialdemocratico nordico. Un modello che Katainen, da conservatore finlandese, casomai vuole distruggere. Per questo egli è il più arcigno alfiere della via ottusa al rigore.

Scritto da

Paolo Borioni

- Storico, dottore di ricerca all'università di Copenaghen, collaboratore del Center for NordicStudies e dell'Università di Helsinki. Si occupa di storia dei paesi nordici, storia del socialismo, welfare state, storia delle istituzioni politiche, temi su cui ha all'attivo molte pubblicazioni e articoli. Contribuisce regolarmente alla stampa quotidiana e a riviste di dibattito politico-culturale. Tifoso della SSLazio 1900 da tre generazioni, di sinistra da quattro generazioni.