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21 Giu 2013

Quanto valgono i nostri dati?

Vi è mai capitato di cercare un volo su internet e per giorni il vostro motore di ricerca è stato inondato di offerte speciali, viaggi e pacchetti vacanze? Avete mai cercato una macchina fotografica e sul vostro premuroso browser sono comparsi decine di annunci di tutti i tipi?  Sicuramente vi sarà capitato spesso e ogni volta vi sarete chiesti il perché di questo misterioso fenomeno.
Ovviamente non è niente di sovrannaturale.

È solo che nel capitalismo di oggi i dati personali degli utenti sono denaro o meglio sono una merce di scambio che genera un fatturato, definito dal rapporto 2011 del World Economic Forum “il nuovo petrolio del futuro”. Sempre di più, infatti,  individuare e monitorare i dati personali rappresenta una miniera inesauribile per conoscere i gusti, le preferenze e persino gli stati d’animo delle persone che affollano il grande villaggio globale e quindi una potentissima arma per creare delle campagne pubblicitarie mirate.

Non a caso negli Stati Uniti è nata una nuova professione molto ben remunerata: il data broker

behavioral_targetingQueste persone, di solito analisti di mercato “prestati al web”, analizzano e organizzano in un insieme coerente di dati le preferenze, scelte, bisogni e necessità degli utenti di internet, per poi rivendere l’ intero pacchetto a chi i produce i beni. Si tratta di un business potenzialmente sconfinato e ancora poco regolamentato che piano piano si sta letteralmente mangiando la pubblicità tradizionale. Di fronte a questa tecnica pubblicitaria così mirata, conosciuta come Behavioural targeting le classiche e dispendiose campagne di marketing sembrano ormai qualcosa di preistorico. Ma da dove prendono i nostri dati gli abili data broker? La risposta è molto semplice: dai motori di ricerca come Google e social network come Facebook. Si, proprio quelli che hanno negato con sdegno di aver mai concesso al governo statunitense i propri database degli utenti.

Secondo lo studioso e programmatore statunitense Jim Brock internet è “una vera e propria rete di trappole pensate per registrare, schematizzare, condividere l’attività online degli utenti”. Attraverso un  tracker, di solito “un cookie, uno Javascript, o un web bug da 1 pixel”, ogni computer e ogni navigatore online viene identificato anonimamente e la sua attività, composta da interessi e comportamenti, viene segnalata a soggetti pubblicitari che a loro volta passano questi dati ai data broker che rivendono il tutto a società produttrici di beni.

Secondo Brock, Facebook è uno dei siti internet che più ci traccia, più chiede e scambia il nostro traffico online impacchettandolo e mettendolo a disposizione di chi fa advertising online. Per dimostrare la sua tesi, il programmatore americano ha creato un’applicazione, PrivacyFix,  che gira anche su Chrome e, attraverso una scansione fornisce informazioni sulle condizioni di privacy di Facebook ma soprattutto è in grado di rivelare in che modo il social network traccia i nostri movimenti e quanto ci guadagna(se volete scoprire quanto vale la vostra privacy cliccate qui).

Grazie al meritorio lavoro di Brock e dei suoi collaboratori, negli Stati Uniti si è aperto un dibattito che ha spinto il governo federale ad aprire un’istruttoria sulla privacy on line e spinto anche l’Unione Europea a cercare di fare un po’ di chiarezza nella jungla dei dati on line.  La pressione è stata talmente forte che lo stesso Facebook è dovuto correre ai ripari dichiarando che  “i numeri degli utenti e gli indirizzi e-mail vengono coperti e nessuno può risalire all’identità della persona nonostante la pubblicità sappia perfettamente i suoi gusti, i suoi orientamenti politici e sessuali”. Una risposta che però non ha minimamente convinto gli esperti della privacy. Facebook non ha infatti fornito né il nome dei propri clienti né tantomeno i dati raccolti. In pratica tutto si regge sulla fiducia, ma non esistono prove concrete che non siano rivenduti anche i numeri e i nomi degli utenti spiati.

E’ ancora presto per capire come si concluderà questa controversia tra i grandi colossi di internet e gli stati. Così come non è possibile prevedere se veramente la violazione della privacy sarà il petrolio del XXI secolo.

Ma sicuramente siamo agli albori di una grande battaglia planetaria che vede coinvolti i grandi interessi pubblici e privati che vogliono impadronirsi delle informazioni personali di milioni di cittadini. Una battaglia che sarà combattuta a suon di programmi e carte bollate e che avverrà spesso alle spalle degli ignari utenti che non sanno neanche di essere diventati la nuova merce del futuro.

Scritto da

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