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25 Ott 2013

Dalla unione alla disunione della classe lavoratrice europea. E di nuovo all‘unione

1) Fino a circa la metà degli anni Settanta, ogni movimento dei lavoratori nazionale poteva in sostanza contare sul fatto che l‘espansione salariale e la costruzione del welfare in ogni altro Paese sviluppato avrebbe consentito di fare sostanzialmente lo stesso. Ogni espansione economica interna, quindi, era dettata da due dati: a) una situazione di deficit dei pagamenti sarebbe stata recuperabile esportando in paesi in cui appunto cresceva (o sarebbe prevedibilmente presto cresciuta) la domanda interna; b) la crescita dell’occupazione in genere, della migliore occupazione in particolare, e del welfare, garantiva una parità fra capitale e lavoro la quale rendeva poi efficace l‘azione dei sindacati e dei partiti socialisti e socialdemocratici. A sua volta, poi, questa efficacia sindacale comportava una popolarità dei sindacati di sinistra, e dunque un incremento della sindacalizzazione e del voto socialista, da cui un‘ulteriore elemento di parità fra capitale e lavoro. In alcuni anni e in alcuni paesi si può addirittura parlare di decenni di parità ad egemonia operaia/socialdemocratica.

2) Tutto si è gradualmente interrotto a metà degli anni Settanta, periodo in cui una serie di riferimenti vennero meno: la fine di Bretton Woods; l‘aumento e la inaffidabilità dei prezzi petroliferi che rischiava di sfondare la bilancia dei pagamenti e far correre l’inflazione se fosse aumentata troppo la domanda interna; il fatto che alle forze neoliberali riuscì sovente di attribuire l’inflazione all’espansione da salari e da welfare anziché appunto ai prezzi petroliferi; la gran parte dell‘espansione del welfare era comunque terminata; affioravano i primi limiti nel consumo delle risorse ambientali e del territorio. Nell’incertezza sempre più paesi cercarono di contare sulla propria capacità di produrre surplus nell’export. Peraltro, in ciò riuscirono al meglio proprio i paesi a più efficace socialdemocrazia, perché più elevata è la parità capitale-lavoro, maggiore è la capacità di spingere il capitalismo a competere mediante l‘innovazione anziché mediante lo sfruttamento.
Ciò si è avvicinato sempre più ad un atteggiamento mercantilistico allorquando crescentemente e pressoché ovunque si è massimizzato l‘attacco ai fattori di parità capitale-lavoro: ciò è avvenuto coi parametri sbilanciatamente anti-inflazione (e non anti-disoccupazione) di Maastricht/dell‘Euro e già da prima con l‘analogo atteggiamento delle banche centrali indipendenti dal potere politico. E ovviamente con la mobilità dei capitali e la finanziarizzazione, che vuole arricchirsi senza creare lavoro e quindi fa a meno della regolazione negoziata.
Il surplus “mercantilistico” dei paesi del nord della UE si deve ad un aspetto positivo e ad uno negativo. Quello positivo è che essi possono giovarsi più di altri degli aspetti “schumpeteriani“ della parità capitale-lavoro della passata egemonia socialdemocratica (competizione alta e innovativa, elevata capacità di potenziare e anche mutare le specializzazioni produttive: questo fa la Germania, questi sono gli aspetti positivi della “flexicurity“ (dove essa non è puro inganno precarizzante) o delle politiche attive/innovative nordiche. L’aspetto negativo è che quei paei (nella realtà costretti ad essere sempre meno socialdemocratici) però divengono mercantilisti che uccidono l‘Europa nel momento in cui la parità capitale-lavoro in realtà viene erosa (Hartz IV di Schroeder, riforme delle indennità di disoccupazione e delle politiche attive in Scandinavia e Olanda ecc.). Così, accanto ai punti alti della competizione emerge una precarizzazione di notevoli regioni della società che deprime la domanda interna. I paesi del sud, a queste condizioni, non possono completare la propria modernizzazione (che pure in un certo periodo era a buon punto), giacché la parità capitale-lavoro, sempre stata più debole che nei paesi germanico-scandinavi, a sua volta crolla. Ma è la parità capitale-lavoro il centro della modernizzazione europea sul piano politico-democratico (perché dà rappresentanza anziché populismo), produttivo (perché obbliga all‘innovazione anziché allo sfruttamento), culturale (perché obbliga alla diffusione della conoscenza anziché alla precarizzazione), civile (perché chiama la negoziazione democratica sul piano collettivo, e su quello individuale concepisce l‘uomo come veicolo di scienza e di benessere, cioè come fine, e non come mezzo, cioè come alienato elemento produttivo).

3) Questo processo incrementale storico-economico provoca appunto, oltre all’indebolimento, anche la disunione della classe lavoratrice europea in almeno tre sensi: a) la precarizzazione e comunque l’impoverimento del lavoro causano l’indebolimento socio-politico della socialdemocrazia e dei sindacati a favore dei populismi e dell’astensione (divisione elettorale-politica); b) per motivi diversi ma analoghi indebolisce la sindacalizzazione o la muta di segno politico, come nel caso dei corporativismi e dei nazional-populisti nella LO nordica, o dei leghisti nella Cgil, provocando anche una minore vicinanza organica fra sindacati e socialdemocrazia (divisione di classe, sindacale e nel mercato del lavoro); c) perché a differenza di un tempo, l’interesse nazionale delle diverse classi lavoratrici europee non è più coincidente (l‘espansione salariale e del welfare creava spazi per tutti) ma divergente (divisione nazionale della UE, ed esistenza puramente retorica e burocratica del socialismo europeo, con buona pace dei suoi cantori sentimentali ed acritici).

4) E’ comunque sbagliato, oltre ad essere stereotipato, accusare la socialdemocrazia come cultura politica “del novecento” ormai finita. O come cultura della integrazione nel capitalismo della classe operaia. La via è ancora socialdemocratica, ma sovranazionale. Lo è perché:
a) è falso che la socialdemocrazia sia stata solo legata al welfare nazionale europeo, essa anzi, come detto sopra, prosperò in un epoca di alleanza di fatto fra le classi operaie e lavoratrici europee. Citare sempre il 1914 come parallelo non ha senso: la socialdemocrazia doveva ancora divenire sé stessa, e lo divenne solo dal 1930 (nei paesi nordici) in poi (in modi diversi in tutta Europa e oltre);
b) senza parità capitale-lavoro democratica e riformista non c’è rinascita salariale, e quindi non c’è una domanda di base che sostituisca quella da indebitamento;
c) perché è falso che la socialdemocrazia sia stato “distribuire il benessere finché c’era”: al contrario come detto sopra e come apparirà sotto, il socialismo europeo e il movimento operaio organizzato hanno plasmato, con la parità-capitale lavoro, il modo di produrre, di competere, di innovare, di lavorare in un modo che oggi può (vedi sotto) e deve essere riproposto ad un livello sovranazionale per uscire dalla crisi.

5) Il movimento sindacale europeo è più che conscio che la via competitiva tramite un mercantilismo da dumping “sociale” è letale per l‘Europa. Lo conferma il fatto che per il sindacato tedesco si esce dalla crisi solo mediante una crescita da salari che corregga gli squilibri di domanda e di bilancia dei pagamenti a favore della Germania: “Trade Unions must also contribute to the management of a common currency union. This particularly applies to wage coordination … necessary to stabilise the currency zone. European Trade Unions have already developed their first mechanisms for wage coordination (wage coordination formula of the European Metal Workers‘ Federation). These are to be implemented and developed in order to prevent a widening of the gap in living standards in Europe (…) it is imperative that the trade unions do the coordinating. Attacks on by the European Commission, the ECB and the International Monetary Fund (“troika”) on the wage-bargaining autonomy of labour market players are resolutely dismissed by IG Metall”. Ma una maggiore autonomia rivendicativa, con relativo coordinamento internazionale, da parte sindacale abbisogna degli spazi indicati da Blanchard: un coordinamento fra le inflazioni da salari dei paesi in surplus e in deficit attorno ad un asse centrale medio di inflazione comunque sotto controllo. Nei paesi in surplus commerciale sarà interesse dei sindacati facilitare una situazione in cui i lavoratori raccolgano il frutto salariale della propria produttività e del proprio successo nell‘export. In quelli in deficit sarà interesse dei sindacati approfittare della dinamica favorevole all’export così innescatasi nei paesi in surplus, aumentando l‘occupazione e poi gradualmente anche le retribuzioni. E così via. Si noti però che anche da questo punto di vista un Piano Mashall come quello della Db (vedi sotto), che mira a diffondere premesse positive per la produttività totale dei fattori e l’avanzamento tecnologico in tutti i Paesi Ue, è propedeutico e funzionale. Una regolazione sovranazionale del tipo di quella proposta da Blanchard, cioè, è meglio conseguibile se comunque i vari paesi dell’area Euro/Ue hanno la capacità di non perdere il controllo della propria bilancia dei pagamenti, se quindi gli squilibri di volta in volta da correggere non saranno troppo accentuati e se le produzioni dei paesi in deficit saranno integrabili in quelli in surplus. Insomma, la politica della domanda di cui ha maggiormente bisogno la Ue non va scissa dalla regolazione qualitativa/quantitativa dell‘investimento e della produzione.

6) Ovviamente, tutto questo presuppone un gigantesco investimento in produttività, innovazione e conoscenza che diffonda i centri produttivi competitivi in Europa, anziché concentrarli in Germania. Un’alternanza dei surplus produttivi comporta una capacità produttiva di soddisfare le domande nazionali che si alternano a trainare la crescita del mercato interno europeo. Il Piano Mashall per l’Europa della Dgb è essenziale, oltre che come mezzo di “crescita attraverso l’investimento e l’occupazione”, anche per questo.
La Confederazione sindacale tedesca Dgb propone un “Fondo Europeo per il Futuro” formato dagli introiti di una apposita patrimoniale una tantum europea del 3% sulle fortune superiori ai 500.000 Euro. Tale fondo mira ad attrarre risorse dai 27000 miliardi di Euro pressoché inattivi emettendo a sua volta delle “obbligazioni New Deal” in grado di assicurare investimenti per 260 miliardi annui, fra investimenti diretti (160) e prestiti a bassi tassi agli investitori privati (100). I proventi d’una tassa sulle transazioni finanziarie, poi, servirebbero a remunerare gli investitori. Con gli investimenti privati che ne discenderebbero si giungerebbe a 400 miliardi, “pari ad un ulteriore impulso alla crescita superiore al 3% del Prodotto Interno Lordo dell’UE nel 2011” ovvero 11 milioni di posti di lavoro di qualità in dieci anni. L’obbiettivo è realizzare investimenti in riduzione del consumo energetico e in economia ed infrastrutture “verdi”, per un forte ridimensionamento della bolletta energetica. Sono anche previste spese nella “nuova edilizia” (cioè posti di lavoro immediati), che non consuma suolo ma innova edifici pubblici e aree già costruite. Edifici scolastici e ospedali verrebbero predisposti per ridurre i consumi energetici a idrici, ma anche l’edilizia privata dovrebbe beneficiarne.
Esso si colloca, in ogni caso, in una solida cultura in gran parte coincidente col sindacato maggioritario europeo e la socialdemocrazia pre-blairiana. Come già avvenne nel piano del sindacato europeo del 1979 Keynes Plus, A Participatory Economy, tale tradizione mira ad un rinnovamento della tradizione keynesiana della sinistra sindacale europea. Secondo tale approccio Keynes: “never went into the what, where, how and for whom of investments and economic growth. He implicitly assumed that the whole story was told by the costs and revenues of a company that made investments (…) We are now very much aware that investments and new production involve both benefits and costs which fall outside the profit and loss accounts of the investment company (…) Full employment in high priority production must become more the central issue rather than just the maximum possible increase og GDP” L‘approccio “Keynes-plus” aveva obbiettivi analoghi a quelli del Piano della Dgb. La crescita deve mirare a: “migliorare le condizioni di lavoro; proteggere l‘ambiente, sia quello naturale sia quello sociale; promuovere una distribuzione equa dei risultati della crescita; economizzare l‘uso delle risorse scarse, specie dell‘energia; rafforzare la qualità del consumo finale”.
Anche l’obbiettivo di raccogliere il risparmio in istituzioni finanziarie capaci di finalizzarlo stabilmente ad una nuova struttura produttiva (minimizzando la casualità della quantità e della qualità capitalistica) rappresenta il meglio del movimento operaio e sindacale europeo: Allan Larsson (a sua volta appartenente alla tradizione svedese che nei primi anni 1970 aveva elaborato nuove modalità di investimento), manifestava la necessità di muoversi in questa direzione già nel 2005.

Scritto da

Paolo Borioni

- Storico, dottore di ricerca all'università di Copenaghen, collaboratore del Center for NordicStudies e dell'Università di Helsinki. Si occupa di storia dei paesi nordici, storia del socialismo, welfare state, storia delle istituzioni politiche, temi su cui ha all'attivo molte pubblicazioni e articoli. Contribuisce regolarmente alla stampa quotidiana e a riviste di dibattito politico-culturale. Tifoso della SSLazio 1900 da tre generazioni, di sinistra da quattro generazioni.