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7 Giu 2013

Fiscalità in Italia e in Europa

La commissione Europea ha pubblicato un’analisi relativa ai sistemi fiscali dei paesi dell’UE in funzione della tipologia e del peso delle tasse. Bisogna però sottolineare che il livello di tassazione non è l’unico elemento da analizzare per poter definire gli effetti economici del fisco in quanto le diverse tipologia di imposta hanno effetti diversi sulla crescita, competitività e sull’efficienza economica.

Per poter fare un’analisi di questo tipo evidenziamo che si possono utilizzare diversi indicatori di pressione fiscale a seconda di ciò che utilizziamo come riferimento, la base imponibili possono essere il reddito da lavoro o quello da capitale oppure ancora la spesa per consumi. Quindi diversi saranno gli indici a cui si farà riferimento. Sicuramente la principale classificazione è quella tra imposte dirette (quelle che colpisco il patrimonio o il reddito IMU, IRPEF) ed indirette (quelle che colpiscono l’utilizzo del patrimonio o del reddito, IVA ed accise). A queste tipologie si aggiunge un’altra tipologia di imposte che sono quelle dei contributi per le prestazioni sociali( contributi previdenziali).

In termini generali possiamo dire che in tutto il mondo la pressione fiscale ha avuto un continuo incremento sino alla metà degli anni ’90 per poi rimanere più o meno costante.

In Europa vediamo che la pressione fiscale risulta più elevata rispetto agli USA ed il Giappone, ma anche all’interno dell’Europa la situazione risulta eterogenea.

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I dati sulla pressione fiscale non tengono conto di alcuni fattori tipo il deficit, infatti poiché la pressione fiscale è solo uno degli strumenti attraverso il quale lo stato ottiene entrate, può essere artificiosamente bassa  anche in paesi con spesa pubblica enorme.

La pressione fiscale dunque sottostima l’enorme peso del fisco sul sistema economico italiano quindi è opportuno analizzare i dati disaggregati per scoprire che l’Italia è messa ancora peggio di come sembra. L’Italia infatti ha una struttura fiscale diversa da quella degli altri Paesi europei, e divide il carico fiscale in diverso modo su imposte sul consumo, sul lavoro e sul capitale.

I Paesi europei in media derivano quasi il 35% delle entrate fiscali da imposte sul consumo, quasi il 50% dal lavoro e un po’ meno del 20% dai capitali. In Italia le entrate dal consumo sono inferiori al 25%, quelle sul lavoro superiori al 50%, e quelle sulle imprese superiori al 25%. La figura mostra i dati per il 2009 per Italia, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, e per la media (pesata) dell’intera Unione Europea. Si nota come i paesi europei tendono a tassare relativamente di più il consumo e relativamente di meno i capitali, mentre per la frazione di tasse totali derivata dal lavoro l’Italia è all’incirca nella media europea.

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Questi dati sottostimano il peso del sistema fiscale italiano perché indicano la compo­sizione delle entrate, e dunque non considerano il fatto che la pressione fiscale in Italia è più alta che negli altri Paesi. Le tasse sulla produzione di ricchezza sono relativamente molto maggiori, soprattutto quelle sul capitale, di quelle sul consumo di ricchezza.

Ora analizziamo distintamente le tre tipologie:

Tasse sulle imprese

Se si guarda l’aliquota massima sul reddito da impresa, l’Italia ha fatto passi da gigante in quindici anni, passando dal 52,2% al 31,4%. Ma l’Europa rimane a debita distanza, passando dal 35,3% al 23,1%. L’Italia ha dunque recuperato quasi metà del gap, però rimane un’economia che tende a tassare molto le imprese. Volendo  porre l’attenzione tasso medio, l’Italia è messa un po’ meglio, al 27,4% contro una media europea del 21,8%.

Ora utilizziamo ITR sul capitale (l’Implicit Tax Rate, cioè la percentuale di reddito imponibile che effettivamente va in tasse) vediamo che l’Italia è il secondo peggior Paese d’Europa, con il 39,1% di tassazione implicita, dopo la Da­nimarca, con il 43,8%, e vicino alla Gran Bretagna e alla Norvegia (che non è parte dell’UE). Le tasse sul capitale includono non solo l’imposta sul reddito da impresa, ma anche tutte le tasse che pesano sulle imprese, da quelle sul parco macchine a quel­le sui terreni e gli immobili, etc.

L’ITR sul capitale per l’Italia era dal 1995 al 2005 nella media europea, poi dal 2006 ha cominciato a crescere fino a superare la Gran Bretagna.

 

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Dai dati l’Italia risulta la prima in Europa per la tassazione sul reddito da capitale (che è simile all’ITR sul capitale, ma esclude le imposte sulla ricchezza), sulla tassazione sul reddito da impresa, ed è ai primi posti per la tassazione sul reddito dei lavoratori autonomi e delle aziende familiari.

La figura successiva (figura 4) mostra l’aliquota effettiva sul capitale per l’Unione Europea e per vari paesi europei. I tre grafici mostrano l’ITR sul capitale (CAP), sui redditi da capitale (CBI), e sui redditi da impresa (BI). Tutti e tre sono molto elevati in Italia, abbondantemente sopra la media europea e dei maggiori paesi europei.

 
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Tasse sulle lavoro

L’Italia è ampiamente sopra la media europea sia per la tassazione effet­tiva sul lavoro che per molte componenti di questa tassazione: è ai primissimi posti ad esempio per i contributi a carico del datore di lavoro, mentre risulta nella media per i contributi a carico del lavoratore e per le imposte sui redditi.

Di fatto gran parte del prodotto dei lavoratori italiani va allo Stato, e per come funziona il nostro sistema previdenziale (e poco cambierà con le recenti riforme per anticipare il passaggio al contributivo), gran parte di questi contributi non vanno al lavoratore ma a qualcun altro. Inoltre le tasse sul lavoro rappresentano un ottimo motivo per non assu­mere e investire, riducendo la competitività dell’economia.

La figura 5 mostra l’aliquota effettiva sul lavoro in alcuni paesi europei. L’Italia è abbondantemente sopra la media europea, e tassa il lavoro molto più della Spagna, dell’Irlan­da e della Germania, e anche più della Francia.

 
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Inoltre bisogna sottolineare che l’elevata pressione fiscale a carico dei datori di lavoro crea una sorta di illusione secondo cui le tasse pagate dai datori di lavoro siano tasse sulle imprese e non tasse sui lavoratori. È però evidente che la domanda di lavoro dipenda dal costo effettivo del lavoro, cioè sia dai salari lordi che dai contributi pagati dalle imprese, e dunque a parità di condizioni un aumento dei secondi sfocia in una riduzione dei primi, oppure in disoccupazione.

 

Tasse sui consumi

In Italia la pressione fiscale sui consumi è inferiore alla media europea, il 16,3% contro il 20,9%.

 

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L’Italia è nella media europea per le tasse sull’energia (come le accise sui carburanti), e quasi in linea per le “sin taxes” (alcol e tabacco), mentre le entrate fiscali legate all’IVA, che rappresentano la maggior parte delle imposte sul consumo, sono inferiori alla media europea.

Bisogna però evidenziare che le basse entrate dell’IVA non sono dovute alle aliquote (dato che il 20% italiano del 2009 è superiore alla media europea) ma alle aliquote ridotte per i generi di prima necessità, all’evasione fiscale e/o al basso livello di consumi finali, oltre che al gettito molto elevato (rispet­to al Pil) delle altre imposte. Secondo l’Eurostat è l’ampio uso delle aliquote ridotte a spiegare le scarse entrate IVA, e l’eliminazione di questi sconti fiscali ovviamente avrebbe pesanti effetti regressivi.

La situazione italiana è quindi caratterizzata da un’elevato carico fiscale che non agevola la capacità di crescita e di innovazione. Inoltre la BCE che stila un “indicatore armonizzato di competitività” (HCI) per tutti i Paesi europei, e l’Italia presenta una competitività normalizzata alla produttività del lavoro circa il 10% peggiore della media europea. Se si vedono gli ultimi dati disponibili (secondo trimestre del 2011) l’Italia è l’econo­mia meno competitiva d’Europa, con un indice di 111,2 (più è alto meno l’economia è competitiva), dopo la Slovacchia, Estonia e l’Irlanda, e all’incirca allo stesso livello di Lussemburgo e Cipro, e con la Germania leader con 84,5.

L’indice di competitività normalizzato al costo di lavoro unitario permette di misurare il rapporto tra costo del lavoro e produttività. Dove il costo del lavoro è elevato ma la produttività del lavoro è ancora più elevata, come in Germania, l’indice di competitività è migliore. L’Italia è da oltre un decennio in ristagno di produttività, e dunque i salari ristagnano e la competitività peggiora.

Visto che il costo del lavoro è in parte, come sottolineato in precedenza, frutto della tassazione (soprattutto dei contributi previdenziali), sarebbe possibile per l’Italia recuperare competitività senza tagliare i salari nominali, semplicemente riducendo la pressione fiscale sul lavoro.

Per operare in tal senso bisognerebbe effettuare tagli di spesa pubblica o rimodulare il carico fiscale tra le diversi componenti analizzate, ma come evidenziato la situazione non presenta molti vincoli di libertà se non quello di aumentare l’IVA sui generi di prima necessità. Questo proprio per le caratteristiche proprie dell’IVA (è un’imposta regressiva) avrebbe un impatto regressivo cosa non positiva soprattutto per un paese con caratterizzato da redditi inferiori alla me­dia.

In conclusione possiamo evidenziare che la pressione fiscale è più elevata della media europea, e gli unici interventi che la nostra politica è riuscita a concepire per uscire dalla crisi è un ulteriore aumento delle imposte.

La pressione fiscale sul lavoro e sul capitale in Italia è molto più alta che negli altri Paesi, non incentivando coloro che contribuiscono alla produzione nel nostro paese, la pressione fiscale sul consumo è invece meno forte, se riuscissimo a ridurre la spesa pubblica e il carico delle imposte, soprattutto quelle che pesano sul lavoro e sul capitale, e se si semplificasse il sistema fiscale, potremmo ottenere due obiettivi fondamentali: mettere in sicurezza i conti pubblici e recuperare competitività.

A tutto questo si potrebbe far fronte anche con una lotta senza confini all’evasione elemento sin’ora non analizzato. L’evasione fiscale in Italia colloca il Paese ai primi posti nel mondo, come ha sottolineato il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, al Forum di Confcommercio. Questo, ha aggiunto , ci assegna “un primato non privo di implicazioni in una realtà, come quella italiana, in cui l’ampiezza dell’area dell’evasione si coniuga, inevitabilmente, con un’elevatissima pressione fiscale sui contribuenti onesti e con l’alto livello del debito pubblico”. “L’allargarsi della zona franca dell’evasione fiscale – ha concluso – produce effetti distorsivi sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza, e altera il funzionamento della libera concorrenza”. Per Giampaolino, dunque, “sono evidenti gli spazi che si offrono all’azione sistematica di recupero dell’evasione, capaci di soddisfare esigenze di gettito e obiettivi di redistribuzione ed equità”.

L’evasione fiscale costa all’Italia oltre 180 miliardi di euro all’anno. Una cifra che pone il nostro paese al primo posto in assoluto nella UE. A livello europeo, trattandosi di attività illecite, non esistono studi statistici ufficiali. Ma nelle istituzioni UE si fa riferimento allo studio firmato dal britannico Richard Murphy, direttore di ‘Tax Research’, e commissionato dal gruppo socialista-democratico del Parlamento europeo S&D. Lo studio stima che nella UE, sulla base dei dati Pil del 2009, l’evasione fiscale è di 860 miliardi di euro l’anno, ai quali vanno aggiunti 150 miliardi di elusione per un totale di oltre 1.000 miliardi l’anno. I dati sulla sola evasione fiscale vedono l’Italia maglia nera con più di 180 miliardi di euro, seguita dalla Germani a 159 miliardi e dalla Francia (121). Ci sono poi la Gran Bretagna (74) e la Spagna (73).

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Forse concentrando l’attenzione su tale cataclisma tutto italiano potremmo fare di più cambiando molto meno, ma purtroppo sentiamo parlare di lotta all’evasione da sempre e da sempre non cambia nulla.

 

Scritto da

Luigi Cristiani

- Economista e appassionato di tutta la letteratura economica da Smith a Marx, da Keynes a von Hayek, da Modigliani a Friedman. Amo i fumetti della Marvel (Spider-Man, The Avengers, Fantastic Four, X-Men), lo squash, il tennis e il basket. Patito per il Napoli