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18 Nov 2013

Università e prof anziani, l’esperienza da non disperdere

BARONI_NERIA 70 anni i professori universitari, se fossero generosi e onesti, dovrebbero andare in pensione. Per fare posto ai giovani ricercatori, soprattutto se da far rientrare dall’estero, i cosiddetti  “cervelli in fuga”, per i quali sarebbe poco attrattivo tornare da  ricercatori, e che bisognerebbe far tornare con posizioni idonee di  professore.

Non so francamente il ministro Carrozza quale messaggio  volesse lanciare, con questa dichiarazione a Radio24, ai giovani  ricercatori e all’università italiana.
Per la stima che ho del  ministro ne sono francamente stupito. Perché quello che ho inteso io è  nei fatti un’irriconoscente delegittimazione di un’intera generazione  di docenti che hanno speso una vita nell’università italiana; tutti  ascritti al ruolo di “baroni”, quando nell’università italiana ci vuol  ben altro che una cattedra e 70 anni per averne lo status. E insieme  un’ascrizione a figli di un dio minore dei tanti giovani ricercatori  di talento rimasti in Italia non meno bravi di chi è andato  all’estero.

Il  primo consiglio che mi sentirei di dare è un’accorta  valutazione delle equipollenze dei titoli e del valore intrinseco dei  cervelli “tornanti”, di cui al ministro non dovrebbe essere ignoto  qualche  abuso passato. E di stare attenti al rischio che mentre si  delegittima da anni, per confusione e insipienza normativa, il canale  di selezione ordinario dei docenti universitari (abilitazioni e  concorsi) non si faccia prevalere una sorta di “esternalizzazione” al  sistema nazionale universitario della selezione del suo personale.

Insomma, stiamo attenti che l’antico  concetto della chiamata per  chiara fama, per il passato di difficile uso, per altro non sempre  limpido, non venga sostituito  dalla chiamata di imbecilli di ottime  relazioni (baronali) nascosti  dietro qualche opportuno fiore  all’occhiello di questo o quel giovane ricercatore di effettivo valore.

Ma il punto che mi preme segnalare al ministro, più che note spicciole  di sociologia accademica, è che la sacrosanta esigenza di ringiovanire  i ranghi dell’università italiana non sarà soddisfatta dalla messa a  muro con ludibrio del loro maestri settantenni. La questione è che ad  oggi, grazie ai numeri del turn over bloccato da anni, per fare  entrare un giovane ricercatore di 35anni bisogna pensionare due  settantenni e mezzo, cioè 175 anni di esperienza didattica e  scientifica; e nel caso si volesse un ingresso di un ordinario di 35  anni gli anni di esperienza didattica e scientifica  da rottamare  salgono a 350!

Se il ministro terrà fede all’enunciato  di portare il  turn over dal 20% al 50% questa amara partita doppia vedrà appena  dimezzati i numeri, non altro. Tutto questo è figlio  di scelte scellerate della legge Gelmini, e delle manovre finanziarie che le  hanno accompagnate; di una ristrutturazione al  ribasso del sistema  universitario nazionale che gli ha tolto negli anni tra il 15 e il 20%  delle risorse reali, già scarse. E sì che  come sa ogni analista serio  sull’università italiana si può ancora investire, per la qualità  intrinseca del sistema nonostante tutto, dove se l’indice di  produttività scientifica viene riportato alla  proporzione delle  risorse impegnate le classifiche internazionali restano ancora  lusinghiere. Il fatto è che le scelte di questi anni  sull’università  riflettono un’idea di Paese ripiega to su sé stesso, che più che un  rilancio, cerca il pareggio di bilancio dismettendo e alienando  attività. E’ agli atti parlamentari della scorsa legislatura  l’illustrazione in aula, svolta per l’allora opposizione da chi  scrive, di quello che sarebbe accaduto con la legge Gelmini.

Una picchiata in giù degli organici nell’ordine tendenziale del 40%  del valore di partenza del 2008 (superiore alle 60.000 unità), per giunta scaricata in massima parte sul Sud. A “coprire” questa realtà  di asfissia economica e disfunzionalità normativa, un furore  ideologico su merito e valutazione, di cui non pochi analisti già fanno con argomenti validi un caso di studio su come “non” si promuove  il merito e la valutazione in un sistema che voglia recuperare  efficienza. Per contrastare l’insincerità di tutta la strategia  presunta di rilancio dell’università della Gelmini, chi  scrive propose  un emendamento di salvaguardia. Che cioè alla fine  della  ristrutturazione con cui si voleva ridare efficienza e  competitività  europea all’università italiana ci fossero nel  sistema nel 2020 gli  stessi ruoli, già inferiori alle medie europee, del 2008, più  l’istituenda fascia dei ricercatori a tempo determinato che a quei  ruoli dovevano fornire i docenti. Una clausola di indirizzo “politico”  della ristrutturazione cui si poneva mano, perché non fosse una  dismissione neppure  razionalizzata come sarebbe accaduto. Credo che il  punto politico sia lì, e da quella richiesta a questo e ai prossimi  governi  l’università italiana, se crede in se stessa, deve ripartire.

 

Scritto da

Eugenio Mazzarella

- Eugenio Mazzarella, napoletano, insegna filosofia all'università "Federico II", della cui Facoltà di Lettere è stato preside. Sui interventi su temi etici e culturali sono frequentemente ospitati su diverse testate nazionali. Collabora a Il Mattino. Deputato del Pd nella XVI legislatura.