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28 Mag 2013

Veltroni e il riformismo: manca l’aggettivo socialista

Valter Veltroni purtroppo arriva in ritardo di ben cinque anni, dalla sua Waterloo del 18 aprile 2008, malconcio ed incerottato, all’appuntamento con l’azionista Piero Calamandrei e con il riformismo d’antan, evocati nel suo ultimo libro: ‘E se domani. L’Italia e la sinistra che vorrei’ (ed.Rizzoli), a 9788817044493gsostegno della sua proposta sul semi-presidenzialismo, sull’agognato rilancio di “una grande forza di centro sinistra che tenga al suo interno tutte le culture riformiste” e riconoscendo: “la verita’ drammatica e’ che mai nella storia d’Italia il riformismo e’ stato maggioranza”.  A Veltroni mancano, e si sentono assai, i fondamentali di quel nobile filone culturale e politico che va da Antonio Gramsci a Piero Gobetti a ‘Giustizia e Libertà’ dei fratelli Rosselli al Partito d’Azione di Calamandrei, Riccardo Lombardi, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, ed altri. Un filone culturale e poltico che non vinse ma, diversamente dal Pci e dal comunismo, non e’ stato sconfitto dalla storia, tanto che alcune straordinarie intuizioni di allora si ripropongono nell’incultura di oggi. Ad illustrare alla Costituente, il modello della Repubblica Presidenziale, fu uno di quei “fastidiosi azionisti”, come li bollo’ Palmiro Togliatti, e cioe’ Calamandrei. Ma, e’ bene ricordarlo, lo fece a nome del Pd’A il cui segretario era Lombardi che sulla questione della forma del nuovo Stato repubblicano faceva riferimento al modello anglosassone, alla democrazia britannica, dove, contrariamente alla Repubblica Parlamentare con Camera e Senato scelta dai partiti di massa, Pci, Dc, Psi, il Presidente della Repubblica era pure Capo del governo, eletto a suffraggio universale anziche’ da Camera e Senato, cioe’ dai partiti, ed in sede di elezioni il candidato alla Presidenza della Repubblica, proprio perche’ sara’ anche Capo del governo, era costretto a presentarsi con programma di governo. In tal modo, il compromesso programmatico avveniva, non dopo, ma prima delle elezioni fra alcuni partiti obbligati ad accordarsi sulla candidatura ed il popolo votava per un governo precostituito mentre la lotta politica dal Parlamento non si sarebbe potuta trasferire, come poi avvenuto, all’interno dei partiti. L’elaborazione di questo modello istituzionale conteneva importantissime ‘riforme’ inerenti i centri di potere costruiti dal Regime – burocrazia, magistratura, esercito, stampa – da ripulire: il decreto di amnistia di Togliatti, d’intesa con Alcide De Gasperi, impedi’ questa ‘rivoluzione liberale’, insieme all’art.7 della Costituzione, che elevo’ a norma costituzionale i Patti Lateranensi del 1926 che Gramsci defini’ ‘la capitolazione’ dello Stato. E la via maestra del ‘riformismo’ non violento alternativo alla ‘rivoluzione armata’ per la conquista del potere, fu per ‘gli azionisti’, dispersi dopo il 1947 in diversi partiti, il punto di partenza di altre straordinarie elaborazioni con Lombardi grande  protagonista insieme ad altri ‘uomini di cultura’ prestati alla politica e al sindacato: dal ‘Piano del lavoro’ della Cgil di Di Vittorio e Santi alla sua ‘societa’ piu’ ricca perche’ diversamente ricca’; dalla programmazione economica con Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo al superamento del Pil come strumento per misurare il benessere della gente; dallo Statuto dei Lavoratori di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, che diede ai lavoratori non piu’ soldi ma un bene piu’ prezioso come la liberta’ sindacale e politica alla formazione continua e per tutta la vita di Bruno Trentin; dalla scuola unica dell’obbligo di Tristano Codignola alla riforma sanitaria con l’ospedalizzazione pubblica di Luigi Mariotti; dal segreto bancario e trasparenza del sistema bancario con Federico Caffe’ alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Non ci fu settore della societa’ in quel decennio ’60-’70 che non fosse investito dall’irrefrenabile “carica riformatrice”, tanto da tenere assieme diritti sociali, lo Statuto, e diritti civili, il divorzio e l’aborto. Era quello che Gilles Martinet in ‘La conquista dei poteri’ chiamo’ ‘riformismo rivoluzionario’, per distinguerlo nettamente dal ‘riformismo socialdemocratico’ che si fermo’ al ‘compromesso’ tra capitale e lavoro per conquistando l’Welfare State, rispetto al superamento del capitalismo perche’ divenuto “troppo costoso, per gli operai e l’umanita’ intera”. Questo cambiamento avvenne ad opera del ‘centro-sinistra’ che si esauri’ presto: quando l’alleanza ‘tattica’ tra socialisti e formazioni d’ispirazione cattolica (Acli, Fim e Cisl) finalizzata alle riforme, divenne alleanza ‘strategica’, ossia ‘centro-sinistra organico’ per la spartizione del potere e dei poteri che contraddistinse il pentapartito degli anni ’80, il Caf, e poco tempo prima il ‘compromesso storico’. Ma di tutto questo Veltroni non parla: sorvola e plana su un ‘riformismo generico’, senza radici culturali, politiche e storiche! Ad evidenziarne la stortura ci pensa, ma parzialmente, Mario Pirani. “Ma ‘tutte’ le culture riformiste confuse insieme producono cacofonia […] Il fatto e’ che su questo punto Veltroni schiva la Storia […] l’avversione dei comunisti ieri e dei post comunisti oggi nei confronti del riformismo ha portato a una sequela di sconfitte […] l’attrazione prevalente da Berlinguer in avanti per la sinistra cattolica non ha portato i frutti sperati […] Solo un discorso che riparta dal principio e bonifichi il cammino ingannevole dell’odio anti-socialista puo’ tracciare per la sinistra italiana un futuro non destinato a permanenti e parziali autocritiche”.

Scritto da

Carlo Patrignani

- Romano, classe '53. Giornalista professionista dal 1987. Dopo aver collaborato con il settimanale della Cgil 'Rassegna Sindacale' sono stato responsabile dell'Ufficio Stampa della rFilcea-Cgil e successivamente collaboratore di 'Lavoro e Informazione', mensile fondato di Gino Giugni. Attualmente scrivo su Huffington Post e Formiche. Ho pubblicato 'Lombardi e il fenicottero' (2010) e 'Diversamente ricchi' (2012).