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4 Giu 2012

Fenomenologia della crisi

di Angelo Giubileo
Le riflessioni seguenti emergono da un punto di vista, che si potrebbe anche giudicare inappropriato, senz’altro non ortodosso. In definitiva, potremmo anche dire che trattasi di semplici annotazioni di un osservatore tecnicamente non addetto.
La scienza economica, per secoli, ha sviluppato il confronto tra diverse e opposte teorie. Né più né meno di quanto accaduto per altri settori o rami del sapere umano. Anche durante l’evidenza di quest’ultima crisi, economica e finanziaria, si sono confrontate diverse tesi al fine di trovare una strategia di uscita (exit strategy). Il dibattito d’idee si è mostrato più serrato nel confronto, talvolta assunto anche a livello di scontro ideologico di un passato che fu e che oggi non è più, tra due diverse impostazioni, anche tradizionali, riproposte in termini di, mi sia concesso,  neo-keynesianismo e rigorismo.
Come nei fatti accaduto, le tesi di M. Keynes hanno riportato un grande e duraturo successo nella fase di ricostruzione della società occidentale post-bellica. E tuttavia, a partire dagli anni Settanta, prima con la crisi delle materie prime nel 1973 e poi con la crisi del petrolio nel 1978, queste stesse tesi iniziarono a mostrarsi non più tanto efficaci, a causa del rischio d’inflazione, rivelatosi vero e proprio tallone d’Achille. Come ha ben sintetizzato Colin Crouch, nel suo Il potere dei giganti: “In linea di principio, lo Stato Keynesiano, di fronte al rischio di inflazione, avrebbe potuto ridurre la spesa pubblica e/o aumentare le tasse per ridurre la spinta all’aumento dei prezzi. Ma ciò lo avrebbe costretto a tagliare la spesa in servizi pubblici e ad accettare un moderato aumento della disoccupazione per evitare il peggio (ossia la recessione che segue a una fase inflazionistica). Nella realtà, i governi intervenivano quasi sempre ‘troppo poco e troppo tardi’, per sottrarsi alle sgradevoli conseguenze politiche della disoccupazione e dei tagli della spesa pubblica” (ed. Laterza 2011, pag. 18).
Succede così che, nell’ambito della storia della teoria economica, soprattutto i governi di stampo anglosassone di Margaret Thatcher nel Regno Unito (1979-1990) e Ronald Reagan negli Stati Uniti (1981-1989) impongono le diverse tesi della Chicago School, in buona sostanza una riedizione delle teorie classiche e neoclassiche basate su modelli che rappresentano i mercati attraverso la tendenza ad un equilibrio stabile.
In realtà, si può dire che è già mutato il paradigma di riferimento della scienza economica. Molto prima delle due guerre mondiali, con l’avvento della società industriale, o meglio della Tecnica, intesa nell’accezione del filosofo Emanuele Severino, l’economia originaria di scambio si trasforma definitivamente in economia di produzione e consumo. In microeconomia, il meccanismo regolativo dello scambio, ovvero la determinazione del (giusto) prezzo del bene o servizio oggetto dello scambio deve allora servire a garantire un equilibrio generale, che deve tenere conto di due nuove scelte, significativamente opposte, di produzione e consumo. In buona sostanza, i modelli di equilibrio si rifanno tutti al modello dell’equilibrio generale di Walras, che primo lo elaborò nel 1874. Per le teorie che potremmo dire dell’equilibrio del mercato in sé e per sé, l’azione dello Stato, e quindi in definitiva della politica, è ritenuta inopportuna in quanto i mercati sarebbero dotati di meccanismi autoregolativi in grado di determinare il giusto prezzo di beni e servizi idoneo a mantenere, in fine,  l’equilibrio del sistema stesso di riferimento. 
Quell’equilibrio che, nei fatti, era stato rotto sonoramente dalle due guerre mondiali, in particolare la seconda, all’indomani della quale lo Stato keynesiano diveniva interventista. Fintantochè si giunge, come già anticipato, alle crisi degli anni Settanta. In primis, occorre allora chiedersi se piuttosto non si tratti dell’introduzione di un nuovo paradigma.
 Succede infatti che, a partire dagli anni Settanta, le crisi assumono sempre più la forma e la sostanza di crisi finanziarie, con ricadute sull’economia produttiva, fino all’attuale palingenesi. Rinverdisce il mito del mercato fa da sé, con l’aggiunta preponderante di un meccanismo, destinato ad operare sempre di più su larga scala, che è poi quello sperimentato fino ad allora solo in parte, della leva finanziaria. Tutto sommato, non si tratta di niente di nuovo, almeno fino a quando l’economia finanziaria, pretendendo di non essere più volano dell’economia produttiva, diventerà fine a se stessa. Sganciata dai beni e servizi materiali, l’economia finanziaria sembrerebbe dimostrare quasi un’innata se non connaturata incapacità a raggiungere e mantenere l’equilibrio del proprio sistema, sì che le crisi si produrranno quasi ininterrotte nel corso degli ultimi quarant’anni.
Ma, è bene procedere con ordine. Nel corso degli ultimi quarant’anni, accadono in generale due grosse novità, rispetto ad un passato anche recente.
La prima è nota come globalizzazione. In economia, il fenomeno coincide con l’apertura e una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati internazionali. E’ del tutto evidente che tale fenomeno origina con la fine del mondo bipolare del dopoguerra; in Europa, il fenomeno si manifesta dapprima con la caduta del muro di Berlino nel 1989 e poi il completamento del processo di unificazione monetaria e l’avvento dell’Unione Europea.
Il secondo importante fenomeno, più recente, prende il sopravvento agli inizi del secolo ed è meglio noto come finanziarizzazione dell’economia. Il processo può essere efficacemente compreso attraverso l’incipit della prefazione di un libro di Robert J. Shiller, Il nuovo ordine finanziario, ed. Il Sole 24 Ore 2003: “I vantaggi economici ottenuti attraverso il progresso tecnologico, in sé non garantiscono che un numero maggiore di persone possa godere di una vita serena. Proprio in quanto il mondo di oggi (n.d.r.: siamo nel 2002 negli USA!) è pervaso da una grande insicurezza economica e dalla disuguaglianza dei redditi, un peggioramento delle condizioni è sempre possibile, anche quando i progressi tecnologici ci consentono di conquistare livelli più elevati di successo economico. Ma le nuove idee di gestione del rischio possono metterci in grado di gestire un’ampia varietà di rischi – presenti e futuri, vicini e lontani – e di limitare gli effetti negativi della ‘distruzione creativa’ del capitalismo (n.d.r.: il grassetto è mio!). L’applicazione di queste idee non solo contribuirà a ridurre gli aspetti negativi del rischio, ma incoraggerà un comportamento più incline ad assumersi rischi positivi, generando con ciò un mondo più vario e in definitiva più attraente”.
Si tratta pertanto dell’introduzione di un nuovo paradigma. Il processo di finanziarizzazione favorisce ed implementa un’economia prevalente, in termini di ricchezza (PIL), basata non più sulla relazione economica (reale) di produzione e consumo di beni e servizi, bensì sulla funzione prevalente del capitale di debito di garantire, solo in teoria e in via potremmo dire continuativa, il consumo della produzione (anche in eccesso). Ma, c’è qualcosa di più ancora: lo scambio originario in economia finisce ora con il riguardare non più beni e servizi, ma il rischio, “un’ampia varietà di rischi; presenti e futuri, vicini e lontani”. Si tratterà quindi di determinare piuttosto l’esatto prezzo del rischio!
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Per quanto già evidenziato, risulta facile constatare che, in materia di scienze economiche, non esistono teorie che resistono all’usura del tempo. E questo perché, fortunatamente, è la realtà stessa che cambia. E tuttavia, la maggior parte degli economisti ammette oggi che in tutte le crisi finanziarie, almeno quelle succedutesi negli ultimi quarant’anni, è possibile individuare un processo sostanzialmente lineare e quindi uniforme. In tal guisa, “la Teoria dell’instabilità finanziaria, la cui formulazione originaria risale all’economista (keynesiano) Hyman Minsky (1984), evidenzia l’elemento della ciclicità delle crisi finanziarie che si verificano nell’attuale sistema finanziario globale di riferimento. Il ciclo nasce con l’espansione del mercato, nel quale affluisce maggiore liquidità. L’espansione del mercato è quindi favorita anche da una fase di deregolamentazione che rende più libera la circolazione dei capitali. Ne consegue una crescita del credito, favorita anche da un clima di generale ottimismo, che porta allo sviluppo di politiche macro e micro-economiche di indebitamento (leveraging); fintantochè il livello dello stesso non consente più di far fronte agli impegni assunti, in termini sia di rimborso degli interessi in rialzo sia, nei casi più gravi di insolvenza, di rimborso del capitale. E’ esattamente questo il momento in cui inizia la stretta creditizia sui mercati, a partire dalle banche (credit crunch), e la crisi finanziaria, già iniziata, si rende ai più manifesta. Nella fase successiva, l’intervento dello Stato e, nei casi più gravi, della comunità internazionale servirà a ripristinare le condizioni adeguate per un nuovo sviluppo del mercato”(NdR, in INPDAP, Terzo Rapporto sulla previdenza complementare, 2011).
Esattamente, cosa è dunque cambiato? Scrive J. Stiglitz: “Chi pensava solo e soltanto all’inflazione (la scuola di Chicago e i Keynesiani fautori della rigidità prezzi-salari) aveva ragione in una cosa: dal momento che, con l’inflazione, non tutti i prezzi variano nello stesso momento, i prezzi relativi possono subire dei lievi disallineamenti. Ma queste perdite non sono nulla se paragonate a quelle provocate dalla fragilità dei mercati finanziari. Sembra che l’altro filone dell’economia neokeynesiana, ponendo l’accento sulla fragilità finanziaria, l’abbia spuntata” (Bancarotta, ed. Einaudi 2010, pag. 378).
Si tratta quindi ora di capire innanzitutto da dove derivi questa fragilità. Di certo, la letteratura in materia di crisi finanziarie è sconfinata. Notevolissima è anche la produzione in ordine a quella attuale e pertanto sufficiente a farsi un’idea direi realistica di quanto accaduto. La crisi dei mutui americani si è rivelata crisi di tipo finanziario con conseguenze ed effetti, anche notevoli, sull’economia produttiva di beni e servizi, immediatamente riguardo al bene della casa oggetto dei mutui cosiddetti subprime.
In linea non solo teorica, il capitalismo è noto come quel sistema economico-finanziario che, un po’ come l’araba fenice, produce fallimenti e dai propri fallimenti rinasce e genera nuova ricchezza. A tale proposito, J. Schumpeter coniò la famosa e felice espressione: “il capitalismo è distruzione creatrice”. Ogni sistema capitalistico conosce quindi i suoi fallimenti, reali, che possono tutti per così dire essere riassorbiti al proprio interno, salvo che non si tratti di fallimenti di sistema, in grado cioè di causare la fine (default) del sistema stesso.
Indubbiamente, il modello di gran lunga prevalente dell’attuale sistema di produzione capitalistica mondiale poggia sull’attività delle banche, laddove da qualche anno si fa sempre più difficoltà a distinguere tra le proprie attività di tipo commerciale e quelle d’investimento. Nelle recenti crisi finanziarie, gli Stati, gli istituti e le banche prestatrici di ultima istanza sono molto spesso intervenute ripianando i disavanzi delle banche commerciali in modo da impedirne il fallimento, e questo perché ritenute “troppo grandi per poter fallire”, ovvero, detto in altri termini, in quanto ritenute centrali nell’ambito del sistema economico-finanziario di riferimento. E questo, giusto o sbagliato che sia o che è stato!
Ma da cosa è dipeso sostanzialmente la crisi dei mercati di riferimento? E perché, nel caso dell’ultima crisi, a livello di USA e Europa, è stato fatto il paragone con la crisi del Ventinove e la conseguente fase di grave depressione dell’economia?
Resta immutato che, anche nella recente grande crisi finanziaria dell’occidente, l’equilibrio (del sistema) di un mercato è dato in generale dalla corretta determinazione del prezzo. Questa operazione, basilare, presuppone la disponibilità di una, altrettanto, corretta informazione. Nella recente crisi, l’informazione, e in particolare quella posseduta dalle banche, si è dimostrata nella migliore delle ipotesi carente se non assente. Ciò è stato determinato da una serie di cause o concause: crediti concessi in mancanza di adeguate garanzie, provvigioni e commissioni agli agenti rappresentativi sganciate dall’esito dell’affare, bilanci e contabilità poco trasparenti o truffaldini, operazioni condotte attraverso strumenti finanziari ad alto rischio quali cartolarizzazioni e derivati, assenza di regolamentazione delle attività finanziarie poste in essere, marketing over the counter, insider trading, trading algoritmico, etc.
Infine, un altro fattore ha poi inciso fortemente sulla crisi, fattore ricompreso nel concetto di esternalità. Molti banchieri, e con loro soprattutto i politici di turno, hanno in pratica ritenuto che il sistema di leva finanziaria, che Stiglitz definisce American style, sarebbe stato in grado di svilupparsi autonomamente oltre il mercato produttivo (reale) dei beni e servizi. Come si vede, si è trattato di una pura e mera illusione, oggi pagata a caro prezzo, e soprattutto ingiustamente, da ogni singolo contribuente.
In definitiva, occorrerà quindi ristabilire un equilibrio, che molto probabilmente si è rotto laddove solo si consideri che oggi la ricchezza produttiva mondiale, in termini di PIL, è inferiore di circa tredici volte al valore della ricchezza finanziaria. Ed è evidente quindi che è certamente questo, nell’attualità, il compito principale che la politica deve assumersi.

Scritto da

Redazione LPP

- Redazione de La Prima Pietra