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11 Gen 2012

Il morso implacabile della speculazione finanziaria

Tra le tante incertezze il 2012 si apre con un dato certo: stiamo entrando nel quinto anno della crisi. Un tempo abbastanza lungo per poter azzardare quindi un primo provvisorio bilancio.  La prima cosa che balza agli occhi è che ci troviamo di fronte ad una crisi sistemica, dall’impatto molto più dirompente delle precedenti.  In effetti, lo squilibrio tra economia e finanza sembra ormai aver raggiunto un punto di non ritorno e tutte le nazioni si trovano di fronte al problema di una crescita economica praticamente inesistente.  Anche se all’apparenza si potrebbe pensare che si tratta di due questioni separate, in realtà squilibrio finanziario e crescita si muovono praticamente sullo stesso binario. Infatti è ormai chiaro quasi a  tutti che per cercare di invertire la rotta lo Stato non può più limitarsi ad essere uno spettatore passivo, o  al massimo un perenne curatore fallimentare, ma deve tornare a fare quello che ha fatto fino agli inizi degli anni Ottanta:  favorire l’occupazione, stabilire regole e organizzare una politica industriale. Ma qui, come si dice, casca l’asino. Ammesso che un qualche governo voglia  davvero invertire la rotta, nell’epoca della speculazione globale, senza regole comuni quanto meno in ambito europeo, gli speculatori sarebbero liberi di spostarsi di paese in paese e chi ha capitali potrebbe sempre optare per un investimento sicuro in titoli di Stato di un altro paese. Nell’attuale sistema chi sarebbe disposto a fare massicci investimenti di riconversione industriale in aeree poco sviluppate, con costi altissimi e profitti bassi, quando è possibile indebitarsi in Giappone a un tasso d’interessi quasi nullo e investire in Titoli di Stato italiani con un rendimento del 7%?

Per cercare quindi di comprendere il disastro attuale, o meglio disastro per i comuni mortali e manna per gli speculatori, è necessario richiamare per sommi capi le funzioni del sistema finanziario che possiamo dividere in tre grandi campi: attività di collegamento tra imprenditori e investitori, attività di credito a imprese e famiglie e pura e semplice attività speculativa.
Fino al 1970 il settore finanziario era regolato e funzionava tutto sommato bene. Rappresentava circa il 6% dell’intera economia, aveva un ruolo di supporto e la speculazione era minima. Dopo la crisi del 1973 un economista austriaco, Friedrich August von Hayek, e  un americano, Milton Friedman,  teorizzarono, tra le altre cose, che per uscire dalla crisi lo Stato doveva sparire dalla scena lasciando spazio al mercato, che il settore finanziario doveva essere libero di esprimersi senza nessun vicolo e senza nessun opprimente controllo.  Questa deregolamentazione totale ha fatto sì che quantità sempre maggiori di denaro si sono spostate dalla produzione alle attività finanziarie tanto che negli Usa, nel 2007 , circa il 30%-40% dei profitti dell’intera economia proviene dalla speculazione finanziaria pura e semplice. Libero dai fastidiosissimi vincoli imposti dalla democrazia e dalla irritante legge della domanda e dell’offerta, il settore finanziario diventa sempre di più la fonte dei maggiori guadagni. Anche perché se lo speculatore indovina gli investimenti  si appropria della ricchezza altrui, senza produrne di nuova,  mentre se perde non ci sono comunque problemi, in primis perché i soldi non sono suoi e poi perché, nel caso più grave, ci pensano i tanto bistrattati governi a coprire le perdite. Piccolo inconveniente: la speculazione non mette e non toglie nulla al benessere della società. Anzi, secondo alcune stime una buona parte del debito pubblico è frutto della speculazione finanziaria internazionale.
A questo punto una domanda potrebbe sorgere spontanea: come fare per evitare questo abominio? Quando arriverà qualcuno capace di trovare la soluzione ? In realtà, come al solito, la grande truffa comunicativa a cui assistiamo ci fa credere che in questi anni non siano state elaborate ricette alternative alla crisi capaci di risolvere, o quanto meno attenuare, gli effetti nefasti dello squilibrio tra economia e finanza. In realtà mai come in questo particolare momento storico la gran parte degli studiosi sembra convenire su di un punto: bisogna agire a livello internazionale per rendere la speculazione meno appetibile per i flussi di capitale, attraverso maggiori tassazioni e nuove e severe regole.  Il vero dramma è che  tutte queste teorie sono relegate alla letteratura economica e nessun partito (soprattutto in Italia) sembra minimamente interessato se non ad applicarle, quanto meno a studiarle. Certamente in tempi di crisi è difficile avere la bacchetta magica e pensare di risolvere dall’oggi al domani questioni che nascono almeno trent’anni fa, anche perché le dinamiche economiche sono spesso imprevedibili e fortemente variabili. Una cosa è certa però, le crisi non sono situazioni statiche, sono momenti di paradosso e di possibilità, possono portare alla definitiva catastrofe o al contrario possono far nascere alternative nuove, magari innovative, magari di stampo socialista. Il tentativo ossessivo dei responsabili di questo disastro  di dimostrare che oltre loro c’è solo la morte, contribuisce a darci una misura di quanto temano l’ignoto che incombe su di loro.
Probabilmente proprio da questo si dovrebbe tentare di ripartire. Un’opposizione sistemica degna di questo nome dovrebbe mettere in discussione l’idea che il capitalismo è il miglior sistema possibile, dovrebbe studiare e cercare di porsi le domande giuste piuttosto che cercare ossessivamente le facili risposte. Ma soprattutto, di fronte ad un sistema capitalismo speculativo di proporzioni internazionali, dovrebbe smetterla di scrutare l’orizzonte dal suo piccolo campanile.

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