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27 Gen 2012

Quando scoprimmo che libertà e diritti non sono scontati

di Fulvio Tudisco e Michele Petriccione

da Il Riformista – Le Ragioni del 22/01/2012

Per anni l’ Italia è stata una nazione fiduciosa e salda nelle proprie certezze. Era l’era del grande disimpegno quando gli anni delle ideologie stavano finalmente per finire  e tutto doveva essere svago, divertimento, possibilità. Il neo liberismo stava trionfando ovunque e il mercato, superbo arbitro dei destini umani, avrebbe garantito sempre maggiore benessere a tutti i cittadini. Questi anni, Ottanta e Novanta, avevano come parole d’ordine “liberalizzazione” e “deregolamentazione”, due concetti, anzi due dogmi, da declinare in tutti i campi della vita. Nell’economia come nel sociale, bisognava liberarsi da tutti vincoli morali e giuridici che limitavano la sana aspirazione al successo.
Almeno due generazioni politiche e intellettuali di sinistra hanno creduto in questa bella favola e hanno coltivato, o peggio ancora hanno fatto finta di coltivare, l’illusione che i diritti e le conquiste sociali fossero ormai qualcosa di acquisito e di immutabile.
Probabilmente, proprio la dissacrante voglia di abbattere i tabù, fondamento dell’ educazione rigida che aveva ingessato la loro adolescenza  ed anche una innata antipatia per la mitizzazione epica di qualunque,  avevano fatto sì che spesso si fosse perduto il senso delle tante battaglie sostenute da chi li aveva preceduti per rendere la loro vita decisamente migliore.
Se le conquiste nate dalle battaglie sociali per il lavoro, i diritti civili, le tutele sociali, l’educazione, le pari opportunità erano oramai messe in cassaforte e dunque erano il pacchetto di certezze ricevuto alla nascita, Perché penare per trasmettere il senso di tutto ciò che si era dovuto sudare per ottenerle ai propri figli? Parole  come diritti, tutele, impegno, emancipazione, libertà, sacrificio, militanza, solidarietà, giustizia e tante ancora, diventavano contenitori svuotati del loro significato. Proprio le fortissime convinzioni politiche e valoriali trasmesse in modo assoluto, come dato di fatto servito su un piatto d’argento, erano l’esatta negazione di ciò che serviva per trasmettere quella “fame” di cambiamento e innovazione che aveva caratterizzato il periodo dall’immediato dopoguerra sino agli anni Settanta.
Il risultato è stato che la generazione nata mentre si compiva l’agonia del secolo breve (quella di chi vi scrive, per intenderci) è cresciuta credendo di poter continuare ad avere il modo nelle mani, di essere immune dal rischio di un vistoso arretramento . Anzi, per i figli degli  anni Ottanta, i partiti, così come i sindacati, e lo stesso impegno politico erano qualcosa di ripugnante da evitare come la peste, causa di mille vessazioni per la povera e innocente società civile.
Le ideologie, simbolo, simboli insanguinati di un secolo feroce, avevano finito la loro funzione perché non c’era più bisogno dei loro valori, in quanto niente o nessuno avrebbe potuto più cancellare il benessere economico e sociale. Paradossalmente questa generazione di “figli” è diventata fortemente conservatrice, con una  scarsa tendenza a mettersi in gioco per analizzare, capire, agire senza blocchi ideologici, senza tabù. L’esatto contrario di ciò che ha dato ai nonni  la forza di ricostruire ed ai padri e alle madri quella di abbattere le rigidità dei nonni stessi.
Come accade sempre,  chi ha lo sguardo rivolto solo alle certezze infuse  diventa debole dinanzi ai cambiamenti. Il mondo invece è cambiato, molto più velocemente di quanto ci si immaginasse, aiutato da rivoluzioni tecnologiche che hanno reso possibile la diffusione delle informazioni in pochi istanti. La favola bella del mercato portatore di pace e di benessere si è rivelata un pia illusione. I diritti e il livello di benessere che consideravamo per sempre acquisiti non si sono rivelati tali e la realtà si è dimostrata completamente diversa.
Qui sta la nostra debolezza, qui sta la debolezza generata in una generazione cresciuta nell’idea che tutto si può conquistare da soli, senza bisogno degli altri.  Nell’era della flessibilità ontologica, la nostra generazione è  costretta a confrontarsi con una realtà impalpabile fatta di insicurezza, competitività e paura perenne. L’unico modo per poter sopportare la sofferenza di una vita che appare senza speranze non può che essere cancellare completamente dalle proprie aspettative il futuro. Pensare infatti a un domani totalmente incerto,in cui i diritti che avevamo considerato acquisiti sono solo un miraggio e senza poter fare all’apparenza nulla per cambiare le cose, rappresenta un fardello troppo pesante da sopportare sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Ma, ovviamente, chi è paralizzato dal panico non ha la forza di chiedere che siano rispettati i propri diritti. Chi vive nel nella paura è disposto ad accettare qualunque rapporto di lavoro perché c’è il rischio di non lavorare mai, è più vulnerabile alle sirene di chi vorrebbe portare via la libertà e magari convincere che in fondo non serve più tanto.
Tuttavia, mobilitazioni di tanti giovani tutti i continenti per affermare i propri diritti è la dimostrazione lampante che gli antidoti a questo generale senso di apatia ci sono: la paura di un futuro senza progetto può trasformarsi in una molla in più per individuare possibili soluzioni, la frammentazione e lì incertezza trasformarsi in una risorsa, in un’ occasione per prendere coscienza del sacrificio e dello sforzo che ci vogliono per cambiare le cose.
Nella ribellione ai blocchi e alle rigidità dei “nonni” si era sottovalutata forse proprio l’importanza del legame tra ciò che si vuole ottenere e il percorso necessario per averlo, sacrifici compresi. Ciò che pone oggi molti giovani più vicini ai nonni piuttosto che ai genitori è proprio quella voglia di cambiare le cose sapendo che ogni conquista deve essere mantenuta e non può essere mai data per scontata. Chi ha scritto la Costituzione sapeva che ciò che aveva portato al fascismo poteva ripetersi ancora e la libertà e la democrazia non sono dati acquisiti, ma valori da difendere continuamente, anche nel più piccolo degli atti quotidiani, con concretezza e senza paura del cambiamento. La generazione dei nonni ha dovuto ricostruire dalle macerie della guerra la società e i partiti, senza scorciatoie,  lottando per i diritti e modellando gradualmente  il paese anche a costo di sacrifici ed errori. Sì oggi ha un senso mettere in contatto nonni e nipoti. Perché in comune hanno il fastidio per i luoghi comuni e il vizio di farsi domande e cercare risposte.

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Scritto da

Redazione LPP

- Redazione de La Prima Pietra

  • francesco

    ai miei tempi a scuola si studiava la storia.